Tahiti e Melbourne, fine del viaggio
Si avvicina la fine di questa vacanza polinesiana ma, per fortuna, abbiamo ancora due giorni a Tahiti, prima di rientrare in Italia passando da Melbourne.
Prima di questo viaggio mi bastava sentir nominare Tahiti e Papeete e già la fantasia mi portava a spiagge tropicali, mare, palme, fiori, profumo di tiarè, insomma paradiso. Ora posso dire che in realtà Tahiti non è come la immaginavo. Papeete è una cittadina col traffico di una città, un po’ caotica, un po’ sporchetta, con costruzioni senza fascino e anche un po’ degradate (le vecchie case coloniali sono praticamente sparite..) quindi non esattamente il paradiso polinesiano!
La sera, girare a piedi ci ha fatto sentire a disagio: poca gente nelle strade interne, e alcuni dall’aspetto poco rassicurante. Se si esclude la parte di Piazza Vaitape, quella con le roulotte che vendono ottimo cibo a poco prezzo, molto frequentata e illuminata, il resto è abbastanza desolato… Nella zona del mercato ho visto gente che dormiva sui pickup, forse erano gli stessi che di giorno lavoravano lì, ma comunque non facevano una gran bella impressione…e anche molti uomini dall’andatura malferma… È stata la prima volta, in tutto il viaggio, in cui mi sono guardata le spalle e ho cambiato marciapiede…
Però, quando abbiamo fatto il giro dell’isola, ciò che ho visto fuori da Papeete e soprattutto a Tahiti Iti (la parte più piccola dell’isola, quella che dai locali viene chiamata ‘presqu’Île’) mi ha rincuorata.
Tahiti Iti è tutta un’altra cosa, qui ho ritrovato la natura ricca, le montagne verdissime, i fiumi balneabili, le spiagge dove i ragazzi “surfano” e quelle dove i bimbi giocano, quasi tutte di sabbia nera. Ecco, diciamola tutta, a me le spiagge di sabbia nera non finiscono di piacere, rendono più cupo anche il colore del mare…
Siamo scesi fino a Teahupoo dove avrebbero dovuto svolgersi i campionati del mondo di surf, il Billabong Pro Surf Competition.
Avevamo letto di questo incredibile reef break che, a causa della barriera corallina (che fa passare la profondità oceanica da più di 50 metri, a poco più di 1,5 metri) può dar vita a un’onda aggressiva a ‘tubo’ alta anche come un palazzo, pesantissima, che genera un rombo assordante ed eravamo pronti a farci accompagnare in barca fino al ‘reef’ per vedere da vicino le evoluzioni dei campioni nel ‘tube’. Avrei voluto emulare Tim McKenna, il fotografo australiano ‘ammalato’ di Polinesia, che ha fotografato le onde di Teahupoo per anni, ma purtroppo il mare era incredibilmente calmo, talmente calmo da decretare la sospensione delle gare… Peccato, niente adrenalina da risalita dell’onda perfetta a lato dei surfisti!
Però lì, in fondo all’isola, abbiamo scoperto un angolino fermo nel tempo: ci si arriva a piedi, dove finisce la strada, superando un ponticello che ballonzola quando i ragazzini ci corrono sopra (e loro, ovviamente, continuano a correre avanti e indietro!), e ci si trova in mezzo a case sparse nel verde con tavole da surf appoggiate ai muri o sui tetti, laghetti con ninfee viola e papere, bimbi scatenati che corrono a piedi nudi o in bicicletta, ragazzi seduti sotto l’albero che suonano l’ukulele e cantano musiche locali. Ecco ‘le village’ mi è piaciuto proprio tanto, anche se non c’era una spiaggia bianca e anche se il cielo era grigio.
La domenica, prima di partire, decidiamo di partecipare alla funzione nella chiesa protestante. E’ un’emozione per gli occhi (colpiti dai colori sgargianti degli abiti delle donne, intonati a cappellini e gioielli) e per le orecchie, perché i canti ‘a cappella’, si succedono in continuazione e sono bellissimi, forti, coinvolgenti… da pelle d’oca…
E, con ancora la musica nelle orecchie, ci avviamo all’aeroporto. Non parlo più tanto e io, che di solito sono sorridente, sento una sottile malinconia che si impadronisce dei miei pensieri. Mentre aspettiamo l’imbarco, con gli abiti pesanti per affrontare il clima di Melbourne, lascio spazio a una vocina che nella testa si fa sentire insistentemente: “Ma perché la Polinesia dev’essere una volta nella vita? Chi l’ha detto?” E come darle torto? (alla vocina, intendo..) E così mi dico che.. forse, chissà, magari… giochi per sentire meno la tristezza del distacco..
L’arrivo a Melbourne mi fa ritrovare la parola. La città è effervescente, i cieli sono azzurri con nuvole che si muovono veloci perché il vento soffia forte, la gente è in giro in maglietta, maglione, giacchetta, cappotto (sempre detto che la percezione della temperatura atmosferica è molto soggettiva!), un sacco di gente, per lo più giovane. Non ero più abituata a tutta questa umanità. L’impressione è che siano tutti molto tranquilli, non si corre, tanto che il guidatore dell’autobus che ci porta dall’aeroporto in città, alle varie fermate si presta a spiegare la strada a chi scende, cartina alla mano. Ma dove lo trovi un driver di mezzi pubblici così disponibile? Poi scopro che Melbourne è stata nominata per sette anni consecutivi (fino al 2017) “città più vivibile al mondo” secondo la classifica stilata da The Economist. Ecco!
Scopriamo che nella zona centrale si può salire e scendere dai vari tram senza pagare, una voce avvisa quando si sta per uscire dalla ‘free-zone’ e quindi o si scende, o si paga. Praticamente giriamo per il centro senza mai spendere un euro!
Lo skyline è un mix di grattacieli moderni e case antiche, anche se forse antiche non è proprio la parola giusta per noi che in Italia siamo abituati a vere antichità! Qui tutto ciò che è del 1800 è considerato antico, dato che la città è stata fondata nel 1835!
I vicoli che collegano le arterie maggiori sono una galleria d’arte a cielo aperto. Spazio a writer noti (come Banksy o Keith Haring) o sconosciuti che possono dipingere muri e anche i cassonetti dell’immondizia, così tutto diventa una macchia di colore.
E poi saliamo allo Skydeck, l’immancabile torre da cui godersi il panorama sulla città e sul fiume Yarra, e questa volta decidiamo di andarci per il tramonto. Uno spettacolo!
Mi piace questa città giovane, anche se il vento mi sferza la faccia e mi fa alzare il cappuccio della giacca, e poi ci sono tantissimi ristoranti, che offrono tutte le cucine possibili, che siano dei goderecci questi melbourniani? Mi adeguo e cerco di assaporare e godere di quanto mi circonda, quanto più posso.
Facciamo il percorso verso l’aeroporto con il sole che lascia man mano il posto a nuvole grigie, ma io ripenso a quanto ho visto in questi 40 giorni, attraverso quante atmosfere sono passata, quante persone ho conosciuto, quanti azzurri ho scoperto, quanti fiori e profumi ho annusato e quanti cieli mutevoli ho ammirato e non so stilare una graduatoria di cosa mi sia piaciuto di più, so che è stato un viaggio che ha cambiato la mia percezione dell’ambiente e che anch’io, come quel giornalista di cui parlavo precedentemente, Tim McKenna, mi sono sicuramente ‘ammalata’ di Polinesia.
Chissà se sarà solo una volta nella vita?