Avviato a Milano, in Regione, un percorso sul tema del gender pay gap. Un’iniziativa articolata di approfondimento e informazione, che sarà seguita da un confronto tra tutte le parti, per avanzare suggerimenti e proposte concrete.
Secondo il recente rapporto Oxfam, meno della metà della popolazione femminile italiana è occupata e tra queste 1/4 lavora in ruoli al di sotto delle proprie potenzialità. Circa 3 lavoratrici su 4 sono “vittime” del part-time involontario, per tenere tutto in equilibrio figli, vita privata, lavoro, finché ce la si fa. Il dato del 2016 fornito dall’Ispettorato del Lavoro sulle dimissioni volontarie con figli fino a 3 anni d’età parla chiaro: sono state 37.738, di cui le donne che si sono licenziate sono state 29.879. Tra le mamme, appena 5.261 sono i passaggi ad altra azienda, mentre tutte le altre (24.618) hanno specificato motivazioni legate alla difficoltà di assistere il bambino (costi elevati e mancanza di nidi) o alla difficoltà di conciliare lavoro e famiglia. La Lombardia è in testa con un numero altissimo di dimissioni convalidate: 8.850, di cui 3.757 sono dovute al passaggio ad altra azienda, ma tutte le altre (5.093) sono legate a motivi familiari. Tra le donne quasi la metà (3.105) si sono licenziate per mancato accoglimento al nido, assenza di parenti di supporto e elevata incidenza dei costi di assistenza del figlio. Considerando che al nord i costi del nido si aggirano attorno ai 500 euro, con differenze regionali notevoli e valori minori al Sud. Nidi e servizi alle famiglie sono ridotti ai minimi termini, come ricordato ancora dall’Istat in una recente analisi. I posti disponibili, in tutto 357.786, coprono solo il 22,8% del potenziale bacino di utenza (i bambini sotto i tre anni residenti in Italia).
I dati appaiono impietosi a questo proposito: i lavori domestici sono ancora prerogativa delle donne (81%) rispetto agli uomini (20%), il 97% delle donne contro il 72% degli uomini si prende cura dei propri figli.
Questa situazione alimenta e perpetua le discriminazioni, perché ai colloqui di lavoro, come sempre compare la domanda “vorrai avere figli?” e se per caso ne hai, quasi sempre ha risultati negativi nella selezione.
Solo il 55% delle madri italiane lavora, di cui il 40% ha un contratto part-time e la metà si tratta di una scelta obbligata. Se si mettono insieme l’ammontare medio di uno stipendio part-time e i costi per il nido si comprendono i dati del numero di donne che optano per le dimissioni.
I dati evidenziano come l’Italia sia ancora indietro in tema di accesso al mercato del lavoro, retribuzione e avanzamento di carriera.
Nel 2017: una donna su due non aveva un lavoro; solo il 48,9% delle donne tra i 15 e i 64 anni aveva un’occupazione; più del 10% delle donne occupate era a rischio di povertà, ovvero donne che pur lavorando vivono in un nucleo familiare con un reddito disponibile al di sotto della soglia del rischio povertà. L’Italia ha continuato ad essere tra i peggiori attori per quanto concerne il tasso di partecipazione economica delle donne, indicatore monitorato nel Global Gender Gap Index realizzato dal World Economic Forum: posizionandosi al 118° posto su 142 Paesi.
Il divario di genere si allarga così, secondo il Wef, oltre il 30%. Una situazione ancora più inaccettabile visto che dal 2006 l’Italia ha dovuto recepire, tramite il decreto legislativo 198, una direttiva europea su pari opportunità e pari trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione. L’ennesima norma rimasta lettera morta nel Paese reale.
Si ripete sempre che il divario di genere fa male non solo alle donne ma anche all’economia. È quindi sempre più importante non dimenticarsi di questo aspetto e cercare di intervenire. Per questo è importante il percorso avviato sul tema dalla consigliera regionale Paola Bocci, che porta a interrogarci e a confrontarci alla ricerca di risposte e soluzioni, un’iniziativa articolata di approfondimento e informazione, che sarà seguita da un confronto tra tutte le parti, per avanzare suggerimenti e proposte concrete. Presso il Pirellone, il 15 ottobre si è svolta la prima tappa a partire dalla domanda “Ma perché io guadagno meno di te?”, dai risvolti assai interessanti, grazie a un approfondimento di ottimo livello apportato dagli interventi. Paola Bocci apre i lavori con un intervento che potete leggere qui.
“In Lombardia, la Regione con il maggior numero di donne occupate, se il divario occupazionale tra uomini e donne è meno sensibile che in alte regioni, resta significativo invece il divario salariale. Questo anacronistico permanere di un alto differenziale retributivo tra uomini e donne, pur in presenza di una legislazione di sostegno in apparenza ineccepibile, non accenna a diminuire, relegando le donne in posizione di subalternità e causando danni anche alle aziende. Tutto avviene però in un clima di inconsapevolezza collettiva, che quindi rende urgente e necessario approfondire il fenomeno da differenti punti di vista, cercando di individuarne. È un tema sentito e su cui viene chiesto di intervenire per ridurre il divario, anche considerando che la parità di genere è uno dei primi 5 obiettivi di Sviluppo del Millennio per l’Onu.”
Questo gap evidenzia come il mondo del lavoro non vada di pari passo con i cambiamenti in corso nella società civile.
Per approfondire questo tema è necessario definire un metodo di analisi corretto, per ottenere dati percentuali affidabili e saper leggere i dati in rapporto agli ambiti produttivi, alla scolarità e in tutto il percorso lavorativo.
Linda Laura Sabbadini in un contributo video analizza il divario salariale e occupazionale femminile in relazione alla crisi internazionale, dalla quale l’Italia ancora fatica a riprendersi. I differenziali occupazionali uomo-donna sono diminuiti del 5% circa, come era accaduto dopo la crisi degli anni ’90. Ma se fino al 2007 era cresciuta l’occupazione femminile, negli ultimi 10 anni abbiamo assistito a una riduzione occupazionale degli uomini, che ha quindi portato a una riduzione del gap tra uomini e donne. Occorre inoltre sottolineare che l’occupazione femminile è concentrata nelle over 50, a causa dell’innalzamento dell’età pensionabile, sotto questa fascia non si è recuperato il livello pre-crisi e soprattutto tra le più giovani c’è una flessione occupazionale che vale a nord quanto a sud. Occorre osservare i problemi, gli intoppi nel percorso lavorativo delle donne, a partire dalla scelta degli studi che poi incideranno sia sul reddito. Inoltre, per comprendere bene il fenomeno, è bene distinguere tra retribuzioni di fatto e quelle formali. Gli straordinari, i premi produzione influiscono sul reddito effettivamente percepito e spesso le donne sono le più penalizzate sotto questi aspetti. Così come subiscono le conseguenze negative di una scarsa propensione all’investimento nella formazione delle lavoratrici. Se è vero che le giovani donne sono più istruite degli uomini, continuano a scegliere materie che danno sbocchi lavorativi con retribuzioni più basse. Questa scarsa remunerazione dipende anche dal fatto che si scelgono impieghi e orari più compatibili con la famiglia e quindi il percorso di vita incide molto. Mentre gli uomini investono tutto sul lavoro da subito, con maggiore libertà di dedicarvisi, le donne avranno spesso un percorso diverso, con risultati differenti. Spesso il cambio di rotta inizia con un figlio, ma anche con il semplice fatto di essere in età fertile. Nel 25% dei casi le donne non tornano al lavoro o riducono l’orario per poter gestire il carico di lavoro familiare, ancora purtroppo principalmente sulle spalle delle donne. Non hanno le stesse opportunità e per questo le politiche devono agire a 360°, occupandosi di riequilibrare anche i compiti di cura.
La misura standard europea per il differenziale retributivo di genere censisce la paga oraria di uomini e donne, indipendentemente dalla posizione, dalla tipologia di professione, l’inquadramento lavorativo. In Italia stando a questo metodo di misurazione non si rileva un grande pay gap. Ma occorre fare una lettura corretta perché altrimenti non si riesce a dare una immagine reale di ciò che accade: questa misura distorce ciò che accade in quei paesi in cui le donne con titolo di studio basso hanno una barriera più alta all’ingresso del mercato del lavoro, e spesso ne restano fuori, a differenza degli uomini.
L’europarlamentare Alessia Mosca nel suo intervento spiega bene questo problema. L’indicatore non tiene in considerazione le donne che non lavorano o che spesso lavorano nel pubblico impiego, laddove le retribuzioni sono inferiori al privato. Inoltre, negli inquadramenti più alti le donne solitamente a pari responsabilità e compiti vengono pagate di meno dei colleghi. Insomma, la misurazione europea resta in superficie, non va nei dettagli. Secondo Alessia Mosca occorre ragionare, tenendo assieme occupazione con occupabilità delle donne e pay gap: si dovrebbe raggiungere un buon livello di occupazione, e noi siamo fanalino di coda in Europa. Poi è cruciale superare le barriere culturali legate alla conciliazione ed evitare che le differenze retributive, che iniziano subito, già a distanza di un anno dalla laurea, si consolidino e diventino sempre più ampie. Ritornando al livello occupazionale, fondamentale è incidere sulla condivisione del lavoro di cura, coinvolgendo maggiormente gli uomini, e su una revisione dell’organizzazione del lavoro, oltre naturalmente a investire in servizi. Eppure c’è ancora tanta resistenza alla diffusione di formule di lavoro “smart”, agile, che possano aiutare le donne a superare certe barriere. Anche se a livello europeo c’è uno stallo nel processo legislativo della nuova direttiva sull’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza, di cui parlavo qui.
Camilla Gaiaschi, ricercatrice dell’Università di Milano, approfondisce il versante dell’occupazione delle donne nelle aziende lombarde, con particolare attenzione a quella parte di pay gap che non è spiegabile. Esiste un’alta selettività nel mercato del lavoro, con scarse opportunità per chi ha titoli di studio bassi. Vengono citati numerosi studi internazionali che ci sono d’aiuto a rivelare prassi e motivazioni che restano spesso nell’ombra. Secondo le teorie di Barbara F. Reskin, Patricia A. Roos, espresse nel saggio del 1990 “Job Queues, Gender Queues: Explaining Women’s Inroads into Male Occupations”, è come se le donne dovessero mettersi in fila, aspettare il proprio turno per essere assunte, sempre dopo gli uomini, perché questa è la propensione dei datori di lavoro. Anche a parità di competenze e impegno, permangono differenze in busta paga, il titolo di studio spesso non conta, così come esiste una percezione diversa se il curriculum appartiene a un uomo o a una donna.
Insomma, le variabili possono essere tante, ma il risultato penalizza le donne. Viene illustrata una indagine condotta su imprese sopra i 100 dipendenti in Lombardia: la forbice del pay gap aumenta man mano che il livello di inquadramento sale, fenomeno confermato anche qui. Chiude il suo contributo, con un focus sull’ambito sanitario, con una ricerca su 5 ospedali lombardi. Manca un cenno sulle specializzande e sulle penalizzazioni e discriminazioni che subiscono in caso di maternità. Non so quanto segmentare le ricerche su singoli comparti possa essere utile all’analisi, si tratta anche di comprendere come lavorano i vertici di un’azienda per rimuovere discriminazioni. Inoltre credo che non sia solo un fatto di rientro in tempi “ragionevoli” dalla maternità, che anche qui ci sia qualcuno che ci debba dire cosa è per noi meglio. Perché si può tornare come un fulmine al lavoro, ma trovarsi di fronte a qualcosa di inaspettato, diverso, non necessariamente un demansionamento, ma spesso un occhio mobbizzante che ti inizia a percepire come “difettosa”, “improduttiva”, che può dare i suoi effetti nocivi anche a distanza di tempo. La resistenza è variabile, così pure la probabilità che tutto torni al suo posto. Ma sappiamo che così non è, che cambiano inevitabilmente molte cose e quella capacità di modulare l’organizzazione del lavoro diventa fondamentale per tenere “dentro” le donne anche quando qualcosa nella loro vita si modifica. Infine, senza misure come i congedi di paternità obbligatori dalla durata significativa, non smuoveremo di un millimetro la mentalità e l’immaginario per cui i figli sono premianti per i padri e penalizzanti per le madri. Alla fine del 2018 scade la sperimentazione del congedo obbligatorio di paternità di 4 giorni, retibuiti al 100%, da fruire entro i cinque mesi dalla nascita del figlio o dall’ingresso in famiglia del minore adottato. Dal prossimo anno senza ulteriori interventi legislativi che rendano questi 4 giorni strutturali, si tornerà a quota 2.
L’intervento della professoressa di Scienze delle Finanze Alessandra Casarico si concentra su due aspetti: quali sono i differenziali salariali di genere in Italia e il ruolo delle imprese nel determinarli (politiche salariali o di progressione di carriera adottate, organizzazione dei tempi di lavoro, la presenza di servizi complementari al lavoro possono contribuire a creare o a ridurre disuguaglianza). Se le differenze salariali sono diminuite (negli ultimi 30 anni) ed il ruolo dell’istruzione ha acquisito sempre meno rilevanza, grazie alla crescita di donne che proseguivano gli studi, emergono alcune spiegazioni alternative:
– diversi tratti psicologici
– importanza dei carichi di cura
– diversi standard di promozione
– segregazione verticale
– organizzazione del lavoro.
L’analisi si fonda su un arco temporale dal 1995 al 2016 su dati dei lavoratori dipendenti INPS. Mi preme evidenziare un aspetto sul ruolo delle imprese e su come esse possono influenzare i differenziali salariali. Due fenomeni: le donne si concentrano in imprese che riconoscono salari inferiori a entrambi i generi, le donne sono meno abili a contrattare aumenti di salario o progressioni di carriera.
Questo ragionamento parte dal presupposto di essere in condizioni contrattuali stabili, non precarie e con una storia aziendale non breve. Considerando l’attuale mondo del lavoro, tutto diventa più complesso e spesso la scelta dell’azienda deriva solo dall’esigenza di trovare un lavoro, accettando anche offerte al ribasso. In un sistema in cui sei costretta/o a cambiare azienda di frequente diminuirà anche il tuo potere contrattuale. Con la riduzione delle tutele sui lavoratori in tema di licenziamento, con comparti in cui i sindacati sono assenti, si restringono anche gli orizzonti entro i quali puoi avanzare richieste.
Non si menziona e non si contempla il fatto che spesso si trova lavoro attraverso le reti amicali, familiari, clientelari e che ciò che resta “libero” per chi non ha santi protettori sono le briciole, a condizioni di lavoro e retribuzioni peggiori.
Se le donne non si muovono verso imprese migliori, se vi è una scarsa mobilità, io penso che dipenda da una serie di fattori esterni, connaturati con il nostro modello di impresa, di economia, di selezione del personale, con un mondo del lavoro che non ci permette poi tanta scelta. Se hai bisogno di lavorare, accetti anche di rinunciare a qualcosa, questa è la realtà. La professoressa Casarico conclude ponendo alcune domande:
- Quali politiche possono ridurre i vincoli alla mobilità delle donne, in particolare quelle più qualificate?
- Azione a livello di impresa, di istituzioni, entrambe?
- Se le donne si muovono poco, perdono potere contrattuale nei confronti dei loro datori di lavoro oppure no?
- Le donne ricevono salari inferiori perché sono compensate con benefici non monetari, oppure questa compensazione è assente?
L’intervento della professoressa Elsa Fornero, ex ministra del governo Monti, si apre con una domanda aperta al pubblico femminile presente: “quante volte vi siete sentite dire dal datore di lavoro, ma in fondo tu sei moglie e mamma?”. Implicito è il sottotitolo, la tua realizzazione e soddisfazione di donna l’hai già raggiunta, puoi rinunciare alla carriera e anche al lavoro. Si tratta di parlare di parità come opportunità, per un livellamento del livello di gioco, per poter competere in modo paritario. Fornero ci propone una riflessione sulle questioni di genere affini alle questioni di generazioni, ponendo al centro dell’analisi il ciclo di vita delle persone. Pur evidenziando i limiti del modello delineato dall’economista Franco Modigliani, fondato su un lavoratore tipicamente maschile, con una donna in prevalenza economicamente dipendente, esso ci può aiutare a comprendere alcune dinamiche. Concordo con Elsa Fornero quando parla della necessità di creare una buona opportunità di istruzione di qualità per tutti. Poi occorre affrontare tutti i rischi che si presentano: di accesso ai lavori meglio remunerati, di licenziamento, di poche opportunità di formazione. Non siamo disposte ad accontentarci delle briciole, di qualche concessione sporadica e che cambia poco la situazione, ha ragione Fornero, in sostanza non dobbiamo più accettare pannicelli caldi quando si tratta di contrasto alle discriminazioni.
La professoressa Donata Gottardi, che insegna diritto del lavoro presso l’Università di Verona, concentra il suo intervento sull’individuazione di linee guida per la contrattazione collettiva per contrastare il divario, in particolare sul progetto Close the Deal, Fill the Gap, finanziato dal Programma Progress dell’Unione europea. “Il progetto ha inteso verificare l’interazione e le interconnessioni tra due diversi obiettivi politici dell’Unione europea: da un lato, il coinvolgimento delle parti sociali nel contrasto al gender pay gap, dall’altro, la spinta alla decentralizzazione contrattuale con allineamento delle retribuzioni alla produttività.”
Di strada ne è stata fatta, dalle previsioni presenti nella nostra Carta costituzionale, dalla rimozione nel 1960 dai contratti collettivi nazionali di lavoro delle tabelle remunerative differenti per genere a tutte le altre normative di ambito europeo e nazionale. Secondo la professoressa la contrattazione collettiva nazionale ha i suoi vantaggi, ma rischia di perpetuare tutta una serie di stereotipi e discriminazioni, privilegiando ancora le figure maschili in quanto breadwinner in ogni fase economica, soprattutto in tempi di crisi. Per ovviare a questo tipo di approcci che spesso le organizzazioni sindacali mettono in campo, occorre formare tutti gli attori che partecipano alla contrattazione collettiva, perché siano capaci di superare le disparità in fase di negoziazione e di assicurare correttezza in ottica di genere. Un altro fenomeno che si fa strada sempre più negli ultimi anni è la sostituzione di incrementi salariali con l’erogazione di forme di welfare aziendale. Questa formula è sicuramente un alleggerimento del costo del lavoro per le imprese, ma comporta non pochi rischi per il lavoratore, che deve esserne consapevole e deve essere informato. Lo scambio “aumento di stipendio vs forme di welfare” messo in atto e proposto ai lavoratori va a incidere sulla situazione contributiva e quindi sul futuro pensionistico. Deve essere una scelta ponderata, considerando gli eventuali buchi previdenziali, salvo fondi previdenziali aziendali nei quali far confluire i servizi di welfare aziendale non usufruiti. In pratica se prima avevo un aumento dello stipendio da spendere (tassato e che contribuiva a un incasso per lo stato) e che faceva base per il computo dei contributi, con l’erogazione di pacchetti di welfare aziendale, non tassati, una volta consumati non mi resterà nulla a livello di contributi o da far confluire in fondi pensionistici aziendali. In un mondo del lavoro sempre più precario, con interi comparti non presidiati dai sindacati, è forte il quesito su come coinvolgere i lavoratori su questi temi e far comprendere loro i vari risvolti e diritti.
Ciascuna relatrice al termine del proprio intervento ha concluso ponendo delle domande, che saranno raccolte e sottoposte ad associazioni datoriali, organizzazioni sindacali, università, istituzioni. A novembre si terrà un secondo momento di riflessione e di condivisione di questo lavoro collettivo.
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