Barbara si definisce archigiana, ovvero il design e l’architettura nelle sue mani si traducono in moda: la moda è intesa quindi come disciplina progettuale ove l’abito diventa architettura.
Come tutti gli sperimentatori, unisce alla curiosità della ricerca sulle forme, sui materiali e sulle tecniche, una buona dose di spregiudicatezza e irriverenza verso i codici prestabiliti per arrivare ad un oggetto che esuli dall’idea di corazza e di irrigidimento di qualsiasi natura. La donna che indossa i suoi abiti diventa essa stessa protagonista nella predisposizione del proprio abito, costruendo di volta in volta un oggetto da indossare sempre uguale ma al contempo sempre profondamente diverso.
Sei stata incoraggiata dalla tua famiglia nella scelta di studiare architettura?
Sono sempre stata molto decisa e determinata sulla scelta del mio percorso formativo. A quindici anni maturai la passione per la storia dell’arte e dell’architettura classica, grazie al trasporto con cui il mio professore trattava la materia. La mia famiglia assecondò con convinzione la mia scelta: è una loro prerogativa incoraggiare nuovi percorsi. E lo fecero anche quando lanciai la collezione di moda Santarella, intraprendendo una strada tutta in salita ma piena di soddisfazioni.
Che cosa significa per te “fare architettura”?
Guardando indietro e analizzando il mio percorso come architetto e fashion designer, penso che i concetti che meglio descrivono il mio modo di fare architettura sono il movimento e l’interazione. Nei miei progetti architettonici, nelle incursioni urbane realizzate con il gruppo interdisciplinare 4cantoni – che fondai nel 2006 – nella collezione di abiti Santarella, esiste un fil rouge caratterizzato dall’apertura interpretativa di chi vive, fruisce, indossa lo spazio-casa-abito. Non ho mai desiderato calare la mia visione di progettista dall’alto, come spesso avviene per molte realizzazioni, specialmente nelle trasformazioni urbane su grande scala. In molti casi, i cittadini che abitano quei luoghi, non riescono a viverli pienamente perché non li “riconoscono”. Lavorando principalmente nel privato, in una progettazione ‘a tu per tu’ con il committente ho imparato che fare architettura significa lasciar venire alla luce l’essenza di uno spazio privato. In tutti miei progetti c’è un elemento che diviene ossatura portante del progetto. Spesso tale ‘apparato spaziale’ nasce dalla risoluzione del limite più evidente di quello spazio. Sono interessata agli spazi in divenire e alle dinamiche sociali che sottendono il cambiamento. E così anche la collezione Santarella è pensata per seguire i cambiamenti emotivi e fisici delle donne che indossano i miei abiti: non esistono dimensioni predefinite, tutto può essere modificato ed interpretato. Il concetto architettonico di giunto di dilatazione viene utilizzato per alcuni capi con lo scopo di aumentare la capienza e la vestibilità all’occorrenza. La donna viene messa al centro dell’oggetto moda ed ogni abito è strumento di interpretazione personale. Le linee sono semplificate, la façon è essenziale, l’abito viene ricondotto al concetto ancestrale di habitus. Liberi strati di tessuto che si sovrappongono, si piegano e si fanno abito su ciascun corpo…. Con Santarella sento di aver affrontato un progetto di puro design. L’abito è stato ‘iconizzato’, concettualizzato, inserito in un processo di industrial design, declinabile in infiniti mood.
A chi ti ispiri?
Ho sempre amato l’architettura di Souto de Moura, di Alvaro Siza e di Francesco Venezia, l’essenziale e il funzionale uniti ad una grande poeticità del segno. Di ciascuna architettura ho impresso nella mente un elemento specifico che mi parla di rapporto con la natura, di paesaggio, di silenzio. Allo stesso tempo mi incuriosiscono le ardite anticipazioni del gruppo MVRDV.
Che cos’è per te la Bellezza?
La Bellezza per me è sinonimo di armonia e carattere. Durante gli eventi di Santarella, amo accompagnare le donne in un viaggio, verso la loro femminilità. Arrivano delle meravigliose creature che faticano a riconoscersi come tali. Un gran peccato perché stare bene nel proprio corpo aiuta a stare bene nel mondo… In questo la Ruota è un facilitatore.
È più difficile per le donne affermarsi e salire ai livelli più alti?
Sappiamo tutti che esiste una disparità di accesso a ruoli di dirigenza tra uomini e donne, sia nelle cariche pubbliche e politiche che nelle aziende. La donna è chiamata a conciliare gli impegni lavorativi con quelli familiari. La percezione di divario e disagio aumenta in paesi come l’Italia dove il welfare è debole. Molto spesso le donne, che dirigono grandi società, non hanno famiglia, né figli.
Come concili l’attività professionale con la tua duplice attività di architetto e fashion designer?
Da neolaureata era tutto più semplice, avevo la mia attività di libera professionista e collaboravo come freelance con vari studi di architettura sia a Roma che a Milano. Poi, quando il progetto di fashion design Santarella ha preso forma, mi ha impegnata in una serie di attività che andavano ben oltre l’esclusivo creare e prototipare. Mi sono così ritrovata a lavorare sette giorni su sette sul nuovo progetto. Ora sono in una fase di maggiore consapevolezza, perché alla giusta distanza tutto può essere gestito con maggiore equilibrio.
Quali ripercussioni ha avuto sul lavoro il tuo essere una donna?
Molteplici! Lavorare come libera professionista e gestire contemporaneamente una piccola società di moda, portare avanti una maternità senza alcun supporto esterno, se non quello della famiglia di origine ha prodotto una serie di responsabilità che inevitabilmente ricadono tutt’oggi sul mio essere professionista, donna e madre. Ma proprio questi si sono rivelati alla fin fine i miei punti di forza.
Affermarsi professionalmente è più difficile per le donne architetto?
In questo paese è difficile affermarsi in senso assoluto. Non esistono incentivi di nessun tipo per iniziare un’attività professionale con la giusta spinta. L’esperienza maturata come fashion designer ha dimostrato che avere una capacità economica personale ti rende libera da dinamiche esterne al tuo progetto.
Sei mai stata discriminata nel corso della tua carriera?
Fortunatamente non mi è mai capitato un episodio di forte discriminazione. Ho lavorato in uno studio di architettura di Roma, dove si era creato un gruppo ben affiatato di sole donne, tranne uno dei due titolari. In generale nei lavori di architetto i miei committenti stimano professionalità e passione per il lavoro che svolgo.
Qual è stato il progetto architettonico che ti è rimasto nel cuore?
Più che il progetto architettonico direi l’esperienza lavorativa trascorsa in un grande studio di Istanbul, in Turchia. Confrontarsi con progetti di varia scala e natura e farlo in team, mi ha fornito una visione nuova del fare architettura.
Cosa pensi dell’attuale situazione professionale delle donne architetto?
Direi che la situazione attuale delle donne architetto è peggiorata, aggravata da una crisi economica che non cessa minimamente. Siamo l’anello ‘debole’ del sistema lavoro! E non per nostra attitudine o volere. Sulle donne molto spesso pesano le scelte di tagli e di riduzione del personale; la donna lavoratrice porta con se il ‘fardello’ della maternità. Le grandi aziende, ma anche i piccoli studi di architettura – per rimanere sul tema – rinunciano più facilmente alla collaborazione di una donna piuttosto che di un uomo. Come me, molte care amiche e colleghe hanno trovato nuovi canali di espressione creativa, intraprendendo percorsi imprenditoriali ambiziosi. L’empowerment femminile e l’iniziativa personale sono la nuova frontiera.
Che rapporto hai, nel tuo lavoro di architetto e nel quotidiano, con la tecnologia?
La tecnologia rende la vita facile ma non amo abusarne. Ne faccio uso per la progettazione architettonica ed anche per la prototipazione di nuovi capi di abbigliamento e accessori; ma senza la verifica di carta da modello, matita e forbici non riesco a sentirmi libera di esprimermi.
Come è organizzato il tuo lavoro, cosa riesci a delegare e cosa segui personalmente?
Per indole delego molto poco. Mi piace però lavorare in team e se questo è affiatato le cose funzionano molto bene e corrono. Per il progetto Santarella, ad oggi, non sono riuscita a delegare. Infatti seguo ogni singola parte del processo: prototipazione, stile, façon delle collezioni; mi occupo della comunicazione sui social e realizzo eventi di promozione del marchio stesso.
Quale è stato il tuo approccio nella guida del tuo studio?
Il progetto Santarella è nato in società con una collega architetto. Nel corso del tempo però abbiamo collaborato con tantissime entità creative di vario genere. L’approccio è di apertura e sperimentazione. Grazie a questa attitudine e curiosità siamo riuscite a realizzare moltissimi eventi artistici e perfomativi. Ed ora inizia una nuova fase del percorso…
Cosa consigli a chi vuole investire nei propri progetti e intraprendere una carriera come la tua?
Il mio consiglio è quello di essere appassionati e contemporaneamente pragmatici. Mai perdere di vista il senso critico su ciò che si vuole realizzare. E priorità assoluta alla fattibilità economica del progetto.
Pensi che nell’Italia di oggi ci siano ancora dei pregiudizi nei confronti di una donna architetto?
In alcuni contesti, penso che i pregiudizi verso una donna professionista non verranno mai superati se non si lavora, con determinazione, ad un’adeguata formazione; modificando il messaggio che arriva ai nostri figli, fin dall’età prescolare.
Quali sono le caratteristiche o le qualità che prediligi nella selezione dei tuoi collaboratori\trici?
L’onestà in primis, il senso pratico, la visione creativa non convenzionale, l’intraprendenza e la trasparenza comunicativa.
Che suggerimento daresti alle giovani colleghe? Consiglieresti a una ragazza di iscriversi architettura?
Consiglierei di iscriversi ad architettura solo se spinte da una forte motivazione e passione, altrimenti è difficile trovare la propria strada. Ci sono tante studentesse di architettura in Italia ma poche che rivestono ruoli chiave.
Cosa vuol dire per te fare design (o architettura) oggi?
Il mondo del fashion design si sta evolvendo con una rapidità incessante. Occorre trovare nuove strade per inserirsi in un settore che sembra andare verso due direzioni opposte e contrastanti: da una parte il fast fashion sempre meno sostenibile, crea entropia e scarsa qualità di prodotto puntando su una comunicazione veloce ad effetto che viaggi principalmente sui social; dall’altra parte un luxury fashion, dedicato ad un target di nicchia, capace di emozionare con nuovi linguaggi e spesso ardite sperimentazioni. Anche in questo caso la comunicazione social la fa da padrone. Si è però aperta una terza via destinata ad un target medio-alto, caratterizzata da piccole realtà creative che promettono unicità, sostenibilità ed etica nel processo. Oggi mi sento un’archigiana, a metà strada fra l’artigiana e l’architetto, perché quando realizzo i prototipi mi sporco le mani, utilizzando stoffe, provando, settando le macchine da cucire per ardite cuciture, sperimentando con colori e stampe.
C’è una donna architetto a cui ti ispiri? E una fashion designer?
Ho nel cuore il Museo d’Orsay che visitai a 16 anni, in uno dei primi viaggi fatti senza la famiglia. Per questo dico Gae Aulenti. Di recente ho approfondito la poliedrica figura di Nanni Strada. Mi sono emozionata nel rivedere gli stessi concetti di industrial design applicati alla moda, realizzati 40 anni prima. Lei ha introdotto il linguaggio del progetto nella creazione di moda.
Un oggetto di design e un’architettura a cui sei particolarmente affezionata?
Il capo icona della collezione Santarella – la Ruota – ha ottenuto un brevetto di invenzione industriale. E’ un oggetto di design da indossare; la considero la mia creatura, prima che nascesse mia figlia. Una casa che ho progettato agli inizi, un piccolo open space seguito in tutto il suo iter.
Sul tuo tavolo da lavoro non manca mai….
Il mio book per appunti, idee e schizzi di studio e tantissimi post-it sui quali appunto in modo ossessivo idee, link, cose da fare e da ricordare…
Una buona regola che ti sei data?
Impegnarmi esclusivamente in progetti nei quali credo.
Il tuo working dress?
Non esiste un working dress codificato per le mie giornate. Ovviamente vesto i capi Santarella, scegliendo sempre una collana appropriata al mood.
Città o campagna?
Mare.
Qual è il tuo rifugio?
Un luogo dove ci sia il sole, possibilmente vicino al mare.
Ultimo viaggio fatto?
Un’estate lunga si è appena conclusa. Ho avuto la fortuna di esplorare le verdi foreste della Bretagna e il mare cristallino del Salento.
Il tuo difetto maggiore?
Severa con me stessa e spesso con gli altri.
E la cosa che apprezzi di più del tuo carattere?
Amo la condivisione in tutti gli ambiti della mia vita. Mi piace fare rete e mettere in connessione le persone che stimo.
Un tuo rimpianto?
Non ho grandi rimpianti, ho seminato molto, ho lavorato in tanti contesti creativi differenti. Ora sento il bisogno di continuità.
Work in progress….?
Come dicevo sono in una fase di cambiamenti. Da circa un anno sto seguendo dei progetti molto impegnativi ma con potenziali ricadute di tipo sociale. Il più imminente è un progetto ambizioso, portato avanti da un gruppo di donne tenaci, del quale faccio parte. Come fashion designer mi occuperò di lanciare un piccolo marchio di accessori realizzati da un gruppo di donne nigeriane con sede a Castel Volturno. Il mio percorso continua ad essere trasversale. Dall’architettura al fashion design, passando per la comunicazione e la realizzazione di eventi esperenziali. Ed ora questa nuova figura di fashion social entrepreneur.
Grazie a questa nuova visione ho sviluppato una proposta formativa nuova, fuori dagli schemi delle accademie esistenti. Vedremo cosa succederà…
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