Si potrebbe pensare che la situazione in Italia sia diversa, ma i meccanismi che si innescano di fronte all’esplosione della violenza maschile contro le donne è sempre la stessa, con la stessa dose di pregiudizi, stereotipi, colpevolizzazioni e rivittimizzazioni.
Qualche tempo fa una giovane donna è stata vittima di uno stupro di gruppo in un’università nigeriana, e la reazione di molti giovani nigeriani, sia ragazzi sia ragazze, è stata più o meno questa: sì, lo stupro è una cosa sbagliata, ma cosa ci faceva una ragazza in una stanza da sola con quattro ragazzi?
Cerchiamo, se possibile, di mettere da parte l’orribile disumanità di questa reazione. A questi nigeriani è stato insegnato che la donna è per definizione colpevole.
E gli è stato insegnato ad aspettarsi così poco dagli uomini che la visione dell’uomo come creatura selvaggia priva di autocontrollo per loro è tutto sommato accettabile. Insegniamo alle ragazze a vergognarsi. Incrocia le gambe. Copriti. Le facciamo sentire in colpa per il solo fatto di essere nate femmine. E così le ragazze diventano donne incapaci di dire che provano desiderio. Donne che si trattengono. Che non possono dire quello che pensano davvero. Che hanno fatto della simulazione una forma d’arte.
(…) Il problema del genere è che prescrive come dovremmo essere invece di riconoscere come siamo. Immaginate quanto saremmo più felici, quanto ci sentiremmo più liberi di essere chi siamo veramente, senza il peso delle aspettative legate al genere. I maschi e le femmine sono indiscutibilmente diversi sul piano biologico, ma la vita in società accentua le differenze. E poi avvia un processo che si auto-rafforza.
Chimamanda Ngozi Adichie, tratto da We should all be feminists – 2014
Si potrebbe pensare che la situazione in Italia sia diversa, ma i meccanismi che si innescano di fronte all’esplosione della violenza maschile contro le donne è sempre la stessa, con la stessa dose di pregiudizi, stereotipi, colpevolizzazioni e rivittimizzazioni. Diffusissime sono le prescrizioni, i consigli paternalistici alle donne su come prevenire, difendersi, senza mai focalizzarsi su chi agisce abusi e violenza e sulle cause alle sue radici.
Sto frequentando un corso di perfezionamento all’università sulla violenza su donne e minori. Durante una lezione è stata citata la scrittrice e attivista femminista statunitense bell hooks (pseudonimo di Gloria Jean Watkins) che nel suo “Feminist Theory: From Margin to Center” del 1984, rileva come le femministe non siano riuscite a creare un movimento di massa contro l’oppressione sessista perché il fondamento stesso della liberazione delle donne “fino ad oggi non ha tenuto conto della complessità e della diversità di esperienza femminile. Per realizzare il suo potenziale rivoluzionario, la teoria femminista deve iniziare trasformando consapevolmente la propria definizione per comprendere le vite e le idee delle donne al margine.”
Ed è da una posizione di “confine”, dal margine che si coglie la multiformità e la complessità delle istanze, delle questioni, delle fragilità, della capacità di trovare risorse e costruire resilienza. Ed è qui che occorre intervenire, investendo sulle donne.
Per questo ritengo che sia cruciale e di valore il lavoro compiuto da WeWorld Onlus, e che possiamo leggere nella ricerca “Voci di donne dalle periferie – Esclusione, violenza, partecipazione e famiglia”.
Nelle indagini svolte negli anni è emerso quanto forti siano gli stereotipi tra la popolazione italiana in merito a ruoli, violenza e discriminazioni di genere e come sia difficile scardinarli.
Si è cercato quindi di comprendere quanto di questa cultura fosse presente tra le intervistate e se i percorsi seguiti negli Spazi Donna (progetto avviato nel 2014, di cui avevo parlato qui) avessero in qualche modo contribuito a cambiare punto di vista e la mentalità. La maggior parte delle intervistate si dichiara contraria a certi stereotipi di genere, sono favorevoli al fatto che anche le donne debbano e possano lavorare fuori casa e che in tal caso debba esserci, di conseguenza, una equa condivisione dei compiti di cura e dei lavori domestici tra marito e moglie. Al contempo permane l’idea che la donna sia più “adatta” a occuparsi della casa e dei bambini. Numerose donne hanno acquisito consapevolezza (anche grazie al lavoro compiuto negli Spazi Donna) in merito a certi modelli ancora diffusi nel proprio quartiere o nella propria città e iniziano a prenderne le distanze, cercando di educare diversamente le figlie, insegnando loro l’importanza dello studio e della realizzazione personale. È fondamentale che si fornisca loro strumenti per andare oltre il ruolo di mamme e mogli, riscoprendo “l’esigenza di sentirsi anche e soprattutto donne, con una dignità e un diritto a essere rispettate, contro qualsiasi stereotipo e/o atteggiamento sessista.” Un percorso di presa di coscienza di sé che significa anche saper riconoscere la violenza e le sue radici culturali, un modello di relazione tra i sessi patriarcale tramandato di generazione in generazione. Ecco che assume un’importanza cruciale l’educazione delle donne alla parità tra i generi e al rispetto, solo in questo modo si può fare prevenzione della violenza. Iniziare un cammino per consentire alle donne di uscirne, supportandole per un reinserimento sociale, per una loro autonomia. I benefici poi naturalmente si espandono e abbracciano anche i figli, le generazioni successive, interrompono un ciclo fatto di modelli relazionali e di abitudini nocive.
Alcune intervistate, specie se vittime di violenza, sono maggiormente consapevoli della cultura patriarcale presente nei contesti in cui vivono, e di come la violenza contro le donne sia la conseguenza diretta di questa cultura.
Questo è in parte dovuto a percorsi mirati e più strutturati per fuoriuscire dalla violenza e quindi a un livello di consapevolezza maggiore rispetto alle altre. Queste donne dimostrano come sia possibile abbattere gli stereotipi di genere ed educare alla parità e quanto questo sia importante e propedeutico per prevenire la violenza contro le donne.
Le donne coinvolte in questa indagine “appartengono a famiglie con basso livello d’istruzione, diffusa disoccupazione e povertà; provengono da contesti sociali marginali, caratterizzati da degrado e micro/macro criminalità.”
Sappiamo che la violenza è un fenomeno culturale trasversale, sappiamo come “non sia direttamente legata alle condizioni socio-economiche (WHO, 2013)”, ma certamente “la presenza di determinati fattori – come una cultura patriarcale, stereotipi maschilisti, una diseguale distribuzione di potere tra i generi – può favorire l’insorgere di diverse forme di violenza (psicologica, economica, fisica, sessuale), di cui talvolta le donne non sono neppure pienamente consapevoli.”
E anche quando sanno riconoscere la violenza, spesso non hanno le risorse economiche e sociali, non sanno a chi rivolgersi, per porre fine a questa situazione.
Ma che percezione c’è sulla violenza?
“Su 37 donne intervistate (entrate in contatto con WeWorld Onlus nei quartieri di Scampia, San Basilio, Borgo Vecchio e nelle periferie milanesi), ben 18 hanno dichiarato di aver vissuto nella loro vita una qualche forma di violenza, nella maggior parte dei casi ad opera dei propri mariti (altre nell’infanzia da parenti e/o genitori, altre ancora hanno attraversato situazioni famigliari travagliate, intrise di violenza, ad es. il marito tossicodipendente o alcolizzato).”
Questo è ciò che emerso, perché alcune non hanno raccontato non solo per scelta, ma spesso perché in alcuni casi la violenza è più sottile, meno riconoscibile, ma non per questo con minori ricadute. Spesso si tratta di violenza psicologica ed economica, che pongono anche problemi in termini di dimostrabilità. Spesso sono i primi segnali di una violenza che avrà una escalation. Ma finché si vivono queste situazioni da dentro, se non c’è qualcuno che ti aiuta a vederle dall’esterno, per ciò che sono, diventa difficile dargli il giusto peso e cercare di fuggirne. Il senso di colpa, l’isolamento, la paura di non essere comprese, di essere “sbagliate”, il timore di peggiorare la situazione, la paura di perdere i figli, la mancanza di una indipendenza economica, rischiano di bloccare ogni via di fuga. E su questo gli uomini violenti contano.
Il passaggio dalle violenze psicologiche ed economiche a quelle fisiche è spesso breve, come emerge dalla testimonianza di Giulia:
“Ero costantemente controllata. Ero sempre stata una persona che c’aveva un sacco di amicizie, tante, perché lavorando nei locali conosco un sacco di persone, avevo contatti, ho sempre avuto contatti e amicizie che mi porto da una vita. A un certo punto mi sono trovata completamente isolata, ero sola. Mi controllava continuamente, cosa spendevo, cosa non spendevo, quindi il controllo non era soltanto esercitato su di me come persona come controllo della mia vita, ma era esercitato anche a livello economico. Quando ci siamo sposati aprì un conto corrente a nome mio e diceva che ci metteva dei soldi e io dissi “guarda non è che c’è bisogno che mi metti dei soldi”. Io all’inizio questa cosa qua non è che la capii molto però non è che ci pensai perché comunque sia non si era mai manifestato nessun atto di violenza. Il primo episodio fu quando un mio amico mi scrisse su Messenger o su Facebook, non mi ricordo, e commentò una mia foto, che poi ero vestita normalmente, commentò con una emoticon e lui da lì mi picchiò per la prima volta rompendomi il primo telefono e poi successivamente tutti gli altri telefoni dicendo che io lo tradivo, dicendo che io non dovevo parlare con nessuno e da lì cominciò il mio percorso di.. di violenza.”
Giulia, 27 anni, separata, con 1 figlia, Roma
Ogni storia è un caso a sé, che merita di essere affrontata singolarmente, che ha bisogno di attenzioni particolari, soprattutto di agire empaticamente, perché queste donne hanno soprattutto bisogno di ascolto.
Viene rilevata spesso “la mancanza di servizi, la scarsa conoscenza da parte delle donne di ciò che offre il territorio o la poca fiducia nelle istituzioni.”
C’è poi il capitolo della violenza assistita:
“in molti casi è proprio la presenza dei figli la molla per trovare il coraggio di denunciare o per lo meno di chiedere aiuto e fuoriuscire da situazioni di violenza. Nella quasi totalità dei casi in cui una donna subisce violenza, infatti, anche i figli ne sono vittime. Riuscire a nascondere la violenza ai figli è impossibile, e loro stessi ne diventano testimoni. Tutte le intervistate hanno raccontato che le violenze sono state perpetuate di fronte ai bambini. E quando le donne si rendono conto che la situazione di violenza domestica sta avendo conseguenze gravi sui figli, decidono di reagire.”
La violenza che gli uomini agiscono sulle donne ha ripercussioni molto ampie, che rischiano di pesare anche sulle vite dei figli, segnando nel profondo il loro futuro.
Per questo occorre espandere gli sforzi per far conoscere alle donne delle “vie di fuga”, per consentire alle donne di riprendersi le proprie vite, di comprendere il proprio valore, di costruirsi una strada, un futuro non abitato dalla violenza, di trovare una propria indipendenza anche attraverso un lavoro. E qui si apre un panorama che sappiamo non roseo: “rispetto alla media nazionale dell’occupazione femminile che segna un 49,7% (l’Italia è penultima in Europa), nelle periferie lavora solo il 42% delle donne.” Dato che scende al 32% per le 37 donne intervistate, nelle periferie più disagiate. La fascia maggiormente esposta ad una condizione di non soddisfazione per la propria condizione è quella delle giovani 18-34 anni (44%) e delle donne residenti al sud (44%)”.
Queste donne, nonostante tutti gli ostacoli e le difficoltà, con orgoglio rivendicano un proprio spazio nel mondo, il loro valore, un’esistenza all’insegna della serenità per se stesse e per i propri figli.
Penso che tra le tante cose da ricostruire, cruciale sia:
“il rispetto per sé stesse si costruisce avendo cura di sé, iniziando a percepirsi come donne (e non solo come mamme e mogli), e diventano consapevoli delle proprie capacità (anche lavorative), i percorsi di empowerment come quelli offerti dagli Spazi Donna diventano fondamentali, anche e soprattutto per prevenire la violenza contro le donne.”
Da questo mi sento di ripartire per questo 25 novembre, dalla possibilità e dalla necessità di realizzare questo tipo di percorsi, di creare spazi dedicati alle donne, vicino alle donne, dove si possano aprire, possano condividere saperi, esperienze, bisogni, istanze, costruendo insieme un tessuto sociale in cui le donne si sentano parte, accolte, ascoltate.
N.B. L’immagine di copertina e i grafici presenti in questo articolo sono ricavati dall’indagine “Voci di donne dalle periferie – Esclusione, violenza, partecipazione e famiglia di WeWorld Onlus”. © WeWorld Onlus 2018
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