Eddie Vedder Vs. Clark Gable
di Guglielmo Darbo
(Ci) Piacciono perché non se la tirano, perché da grandi sembrano ancora ragazzi, perché sono sempre gli stessi, perché si vestono senza cura e si tingono i capelli di improbabili colori, perché bevono e fumano sul palco, perché Mike Mcready ha la Fender più sdrucita e sgangherata del rock, sembra quella del compianto Rory Gallagher (e se fosse proprio la sua?), perché non realizzano hits da classifica, perché suonano – anche – per beneficenza, come a Seattle quella sera del 22.10.2003.
Benaroya Hall, nel giardino di casa i Pearl Jam danno uno dei concerti più belli della loro carriera, seggiole sul palco, suono semiacustico, spazzole sulla batteria, il teatro è una bomboniera e loro un po’ gigioneggiano è vero, ma regalano una via l’altra prelibatezze slow e midtempo. Dopo centinaia di ascolti è il momento di condividerne qualcuna: “Crazy Mary” è una intensa composizione di Victoria Williams, ma la loro versione è più densa di emozioni e ancor più coinvolgente: Eddie Vedder ci narra della ragazza dagli occhi selvaggi, la sua voce è ammaliante, conforta come un te caldo in una sera d’ inverno e rassicura come Clark Gable in territorio indiano e intanto l’organo Hammond di Boon Gaspar fa da contrappunto discreto, poi soffia e cresce e straripa nel veemente assolo finale che avvince ad ogni ascolto.
L’arpeggio acustico di Stone Gossard introduce la dolente “All or None”, la interpretazione da crooner di Vedder seduce, ma è la solista di McCready a rubare la scena, prima timida e complice, poi via via insinuante e soavemente distorta nel liberatorio assolo che strappa consensi a scena aperta.
E che dire della dylaniana “Masters of War”: l’odio per i padroni della guerra traspare da ogni nota, sino a coinvolgerci con quel celebre e spietato verso: “e io spero che voi moriate e che la vostra morte venga presto”.
Attuale oggi, come nel 1965 e, temo, come domani e sempre.
Il finale è come sempre con “Yellow Ledbetter”: Vedder a raccontare l’ultima storia ancora contro le guerre e Mike McCready a farla di nuovo da padrone dalla prima all’ultima nota; suggestivo l’ultimo minuto dello show, gli altri, seduti, abbandonati gli strumenti, mani in tasca, finalmente rilassati e lui piegato su se stesso a trovare, dita agili sulla tastiera, gli ultimi guizzi sonori tra le ovazioni del pubblico di casa.
Gli appassionati sanno già come muoversi tra la manciata dei dischi in studio e le centinaia di “live”; chi si è sentito coinvolto si compri oltre a questo “Live at Benaroya Hall” – anche – “Riot Act” (Epic) del 2002.
Guida all’ascolto: Rory Gallagher: “Rory Gallagher” 1971; Raoul Walsh “Gli implacabili” 1955 con Clark Gable e Jane Russell
Guglielmo Darbo, avvocato, entra ufficialmente nella musica contemporanea il 10 giugno del 1967 quando, rotto il salvadanaio, acquista Sgt. Pepper’s, Lonely Hearts Club Band; consumato il disco sono nuovamente i Beatles a far volare la sua fantasia adolescente e poi Radio Lussemburgo, ascoltata come un cospiratore, nel silenzio della notte, ad aprirgli nuovi orizzonti: il rock lisergico dei Jefferson Airplane, con la bellissima Grace Slick che sollecita curiosità molto più terrene, Jerri Garcia che smanetta sulla chitarra di Santo & Johnny, con ben diversi risultati e poi Woodstock: due ore d’immagini degli idoli fino ad allora solo ascoltati o letti, il rock jazz inglese che filtra le raffinatezze di Miles Davis, per orecchie meno temprate ed il jazz arrabbiato e trascendente di John Coltrane ed ancora il sublime Bill Evans a ricamar delicatezze trent’anni prima di Keith Jarrett e tutto quanto ha attraversato oltre quarant’anni di vita: da Hendrix -vero Picasso della chitarra elettrica- a Patty Smith, da Van Morrison a Robert Wyatt… e qui il cuore batte a mille… fino a Francesco Guccini, ancora a bordo della sua locomotiva, a De André che si commuove per “gli ultimi”, insomma da una meraviglia all’altra. Sarebbe troppo lungo elencare ciò che ha riempito un’esistenza, rendendola, a volte, perfino felice…