L’odissea di un bambino, anzi due, anzi di milioni di bambini. Quelli vissuti e che ancora vivono o passano da quell’immenso campo profughi che è il Libano, ma che assomiglia molto più all’Inferno in terra di qualsiasi altra cosa la mente umana riesca a figurarsi.
Allora andiamo con ordine perché il caos fisico, morale e mentale regna sovrano in questo film e dopo questo film. Zaim è il bambino dodicenne di una famiglia siriana (credo). Non va a scuola, è utilizzato dai genitori per racimolare quotidianamente i pochi spiccioli che servono a campare, ma la famiglia è assai numerosa e, soprattutto, vive in un’indigenza così tragica e profonda che ha ha pure desertificato i cuori e le menti delle due figure genitoriali. Questi arrivano a cedere in ‘sposa’ la loro figlia undicenne, nella disperazione della stessa e del fratellino Zaim, che si ribella a questo scempio andando via di casa. Incontra Rahil, una donna etiope, anch’essa clandestina, priva di documenti e perciò costretta a nascondere il suo bambino di un anno (forse due).
Con loro Zaim stabilisce una relazione di istintiva solidarietà e affetto. Anche questa esperienza finisce però drammaticamente con il forzoso distacco prima dalla donna e dopo anche dal bambino. Zaim torna a casa e scopre che la sorellina ‘ceduta’ è morta per causa dei maltrattamenti subiti. Reagisce accoltellando lo ‘sposo’; va in carcere e di lì, in modo assolutamente improbabile, intenta un processo contro i suoi genitori per ‘averlo messo al mondo’.
Processo alla genitorialità insensata, incontrollata, egoista. Difficile però immaginare che in una simile realtà un bambino possa far sentire la propria voce in un tribunale ed avere persino un’avvocato a sua difesa. È solo un espediente narrativo – si dirà- che però mal si concilia con lo stile documentaristico che è la cifra più leggibile del film. Non ne racconterò la fine, per cercare invece un ordine nel Cafarnao della vicenda e della vita di questo bambino che di primo acchito, e senza tema di errore, eleviamo a simbolo dei milioni di bambini vittime delle guerre, dell’odio, delle migrazioni epocali, della miseria che ancora domina così tanta parte del Pianeta.
Non c’è che da sentire il cuore ebbro della pietà che il volto sofferente del bravissimo attore -bambino tiene viva per tutta la durata del film, nonostante la narrazione spietata e asciutta che ne fa l’abile mano della regista Nadine Labika. Lunghe riprese ad altezza di bambino alternate a quelle aeree della bidonville infernale che dalle opposte prospettive ti mettono sotto gli occhi il Dolore del mondo nel suo paradigma essenziale. Poco dopo i titoli di coda però avverti una peculiare sensazione di straniamento. Sai che quella sofferenza è VERA, sai che è enorme, che è disperante, che non c’è innocenza e non c’è innocente per quelle ferite, sai che il tuo mondo opulento e democratico ne è, prima di altri, responsabile …sai che tu stesso porti la responsabilità dell’indifferenza che avvolge e tutela il ricco mondo occidentale di cui sei parte; lontano anni -luce da quello. Eppure a mano a mano che ti allontani dai titoli di coda, e solo dopo il dolore, ti si fa strada dentro uno straniante senso della manipolazione, della suggestione emotiva che mai è garantita come quando si manovra sulla vita dei bambini. Il bambino protagonista, bellissimo quanto a tratti improbabile, a ‘manifesto’ dei mali del mondo e dell’infanzia violata, ripreso dalla telecamera in un’ultimo (magari questa volta commendevole) intento utilitaristico, mostrarci la mostruosità di un’infanzia già troppo violata …a coinvolgere un’umanità che rimane sempre troppo distante, troppo inerme, troppo colpevole.
Ed in questo Cafarnao l’unico miracolo è il sorriso finale di Zaim che rimane in blocco immagine sullo schermo prima dei titoli di coda. Se qualcuno vuole un giudizio finale non lo avrà da questa mia riflessione: non a caso il film è un Cafarnao, quello che lascia nell’animo dello spettatore!