Duro atto di accusa contro il mondo del calcio, dipinto come puro circo mediatico finalizzato a macinare tonnellate di danaro. L’esatto contrario di quello che dovrebbe essere il mondo dello sport e dei suoi valori.
Un “j’accuse” che appare persino troppo severo rispetto a quello che forse quel mondo è davvero e che viene raccontato attraverso la tipizzata storia del ragazzo che proviene da ambienti culturalmente deprivati e che, grazie all’eccezionale talento calcistico, si ritrova improvvisamente pieno di danaro, in una società sportiva per la quale rappresenta solo un capitale finanziario, immerso in un ambiente sociale fatto di sanguisughe, ma pur sempre privo degli strumenti intellettuali ed educativi per reagirvi in modo da farne un’esperienza di crescita.
Tutto vero, credo!
Ma il racconto scorre, per buona parte del tempo, su un binario prevedibile …ai limiti della banalità; con esclusione di quell’angolo visuale che è il rapporto da ‘quasi amici’ che si crea inaspettatamente tra il campione Christian Ferro e il professore che gli viene imposto dalla Dirigenza perché, a mero scopo di marketing, il ragazzo sia in qualche modo riportato in limiti disciplinari che ne riscattino l’immagine pubblica e ne rendano più efficaci le prestazioni.
In questo ambiente di disumanità che il danaro facile e improvviso crea, le dinamiche psicologiche tra i due bravissimi attori protagonisti, diventano il focus che, nella parte finale, eleva la narrazione in qualcosa che prescinde dal contesto calcistico, per parlare di amicizia, di sentimenti, di attenzione vera verso l’altro, di come questi, alla fine, possano divenire l’unico veicolo per l’inizio del riscatto. Ma anche questa conclusione appare un po’ semplicistica.
Insomma un film nel complesso gradevole, ma tutto già scritto nell’immaginario dello spettatore medio, e forse fatto così proprio per questo.
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