Discorso attorno alla comunicazione sul fenomeno della violenza maschile contro le donne
Avverto la necessità di ritornare sul tema “prevenzione ed educazione“, approfondendo le considerazioni che avevo fatto qui.
“Ma io non sono violento” ergo “la questione della violenza non mi riguarda”, è una questione lontana da me, che riguarda altri, interessa le donne, sono le donne che devono risolversela e svegliarsi, che se non reagiscono evidentemente non è poi così grave. “Voi femministe siete misandriche”. Ecco, dopo decenni siamo ancora con questo tipo di mentalità, giovani maschi sorretti da uomini adulti che li “educano” ad essere “veri” uomini. Ragazze che pensano che sia colpa delle donne che non denunciano e che fanno finta che il problema non ci sia. Così gli uomini scaricano sulle donne tutto quanto e il ciclo può continuare indisturbato nei secoli. Ecco dopo decenni di lotta, di azione e presa di parola, riflessioni sulle radici del fenomeno della violenza, le giovani generazioni la pensano ancora così. Certo non tutti/e, per fortuna, ma ogni volta che mi imbatto in queste situazioni vengo assalita da uno sconforto profondo, soprattutto se, nonostante tutti gli sforzi compiuti per cercare di disvelare certi meccanismi, la situazione non cambia. Nonostante tutto, siamo ancora a questa diffusa e persistente deresponsabilizzazione maschile, un tirarsi fuori semplicemente perché si ha paura di riflettere su una idea di maschilità, virilità tutt’altro che estinte.
Simone De Beauvoir ne spiega la genesi:
“La donna è precisamente quel sogno incarnato; lei è il desiderato intermediario tra la natura straniera all’uomo e il suo simile che gli è troppo identico”.
L’uomo ha trovato un simile a sé, cosciente di sé, ma non troppo pericoloso, che non gli oppone il silenzio ostile della natura, né necessita di un riconoscimento reciproco. Cosa non da poco, sembra semplice “impadronirsi della sua carne”. Grazie alla donna, l’uomo può sfuggire dall’imperitura e “implacabile dialettica del padrone e dello schiavo, che ha origine nella reciprocità delle libertà”. In pratica, con la donna, l’uomo ha trovato una sorta di soluzione alla sua tensione continua. Insomma la sua isola ideale, il suo sicuro approdo. La donna rappresenta “l’Altro in assoluto, senza reciprocità, l’inessenziale che non ritorna mai all’essenziale”. Comprendete che attraverso questo presupposto gli uomini hanno trovato la soluzione alla loro esistenza, a scapito della donna, che per garantire la quiete all’uomo deve restare in una posizione di subordinazione (ne avevo parlato qui).
La violenza è lo strumento per mantenere il potere e il controllo sulle proprie mogli e compagne, perché il disequilibrio non muti. È anche una conseguenza delle esperienze di vita (violenza assistita) e delle paure che provano: per alcuni uomini agire in un certo modo è prova per sé e per gli altri di essere “dei veri uomini”.
In un suo articolo dal titolo “La «questione maschile». La violenza degli uomini contro le donne nella realtà e nelle rappresentazioni mediali“, Sveva Magaraggia rileva:
“Sono le donne, invece, a morire per mano dei loro compagni nel momento in cui si sottraggono a questo ruolo. Quando interrompono le relazioni d’amore, smettono di restituire uno sguardo che nutre il narcisismo maschile, per dirla con le parole di Jessica Benjamin (1988), e iniziano a diventare misura del potere maschile perduto. Per questo, come mettono in luce i dati, uno dei momenti più pericolosi per le donne è quello della separazione e del divorzio.”
Alcuni continuano a pensare che la causa dei femminicidi sia il fatto che le donne non denunciano, non ne parlano. Eh no, perché così restiamo ancorati al falso mito secondo cui la donna alla fine è corresponsabile e che sia in capo a lei la soluzione di tutto. Invece l’origine della violenza sta nell’uomo, nella sua scelta, nella sua mentalità, nella sua idea di relazione fondata sul possesso e su profonde ragioni culturali, su una struttura sociale e nei rapporti tra i generi squilibrati. Vorrei che si comprendesse bene che il focus deve cambiare, perché non è un problema delle donne. Non si risolve tutto attraverso una legge o delle pene più severe, perché il lavoro da compiere è in primis in chiave di prevenzione ed è culturale. Altrimenti, tra 10 o 20 anni avremo ancora l’enorme numero di casi di violenza stimati in questi anni dall’Istat.
Sentiamo ancora ragazzi che non hanno alcuna intenzione di fare la propria parte per cercare di costruire un futuro diverso, relazioni fondate sul rispetto e la parità. Ripenso a campagne come il fiocco bianco, a come si cerca da anni di cambiare modelli e modi di comunicare la violenza, anche nelle campagne informative e di sensibilizzazione. È innegabile che, anche se la maggioranza degli uomini non commetteranno mai violenza su una donna, non per questo si devono tirare fuori, ma devono fare la loro parte, a partire da loro stessi, rompendo il silenzio che di fatto continua a creare alibi e a sottovalutare le ricadute di modelli tossici di mascolinità, senza che da loro stessi ci sia una stigmatizzazione. Oltretutto, sarebbe utile interrogarsi su forme di violenza meno riconosciute e considerate “normali”. È importante che gli uomini si assumano la responsabilità e si facciano attivi per contrastare la violenza, perché è anche un problema politico, collettivo, oltre che individuale.
Per questo si continua a ragionare sulle forme più utili e fruttuose da adoperare per fare informazione, comunicazione e sensibilizzazione sul fenomeno della violenza maschile.
Senza includere e coinvolgere il maschile non andremo da nessuna parte, senza indagare e comprendere le maschilità e le virilità nelle loro varie forme non ci sposteremo di un millimetro. Può sembrare banale ma spostare i riflettori su questi aspetti serve a cambiare soggetto e oggetto del discorso ed evidenziare l’origine della violenza. Altrimenti avremo partecipato a una delle tante operazioni e modalità di occultamento. Poi occorre indagare dentro tutti e tutte noi su quanto i modelli, gli stereotipi e i pregiudizi agiscano per noi, in noi, perpetuando gerarchie, discriminazioni, modelli. Dobbiamo avere il coraggio di disvelare, rendere visibile tutto questo, non dare nulla per scontato o normale, a partire da noi.
Come sottolinea Sveva Magaraggia (Comunicazione pubblicitaria e genere. Le campagne di comunicazione sociale e pubblicitarie contro la violenza e gli stereotipi di genere – http://www.aboutgender.unige.it Vol. 4 N° 8 anno 2015 pp. 134-164):
“mettere il maschile al centro del discorso pubblico sulla violenza di genere significa far emergere il nesso profondo, non casuale ma intimo, che esiste tra maschilità e violenza: le diverse forme e manifestazioni della violenza di genere affondano le proprie radici nei modelli di maschilità che sono considerati i modi ideali e desiderabili, i modi normali e normati di essere uomini (Kramer 1997; Connell 2005). (…) Dare rilievo alla normalità degli uomini maltrattanti quando si analizza la violenza di genere significa avere come focus le norme culturali che costruiscono la maschilità egemonica oggi in Italia (Magaraggia e Cherubini 2013). (…) Infine, mettere il maschile al centro del discorso pubblico sulla violenza implica anche rivolgersi agli uomini quando si costruiscono politiche di prevenzione della violenza, poiché da loro deve iniziare (ed è in parte già iniziato) un discorso di decostruzione della maschilità egemonica e di moltiplicazione delle forme di maschilità accettate. La dimensione omosociale e l’influenza del gruppo dei pari gioca un ruolo cruciale nella costruzione della maschilità (Flood 2008) e soprattutto nella «riproduzione di versioni egemoni di maschilità, che marginalizzano e silenziano sia le visioni alternative dell’essere uomini (le maschilità considerate “effeminate”) sia le visioni della femminilità, percepite entrambe come forme di alterità» (Ferrero Camoletto 2014, 707).”
Nel 2012 è uscita la campagna Noi no! Il senso di questa esclamazione, come ci spiegavano le ideatrici di Comunicattive, non voleva dire “noi non c’entriamo, noi siamo innocenti”, ma il contrario. Era un modo per far prendere la parola agli uomini, in modo da assumersi le loro responsabilità, esponendosi e impegnandosi in prima persona. La campagna prevedeva una serie di manifesti con volti di uomini accompagnati da tre verbi chiave, con la spiegazione da dizionario: minacciare, umiliare e picchiare. Non solo violenza fisica quindi. “Il target maschile e la presenza della figura maschile in primo piano, mostrata non più come perpetratore di violenze, bensì come capace di rivestire un ruolo attivo nella lotta contro la violenza contro le donne sono le novità di questa campagna (Coco 2013, da S. Magaraggia).”
La campagna “Riconoscersi uomini – Liberarsi dalla violenza” del 2013 di Maschile Plurale e Officina, “propone un modo diverso di essere uomini, liberi dalla violenza e in relazione con le donne, una relazione che diventa occasione di ascolto, di riflessione e di maturazione umana, anche nei momenti più conflittuali e dolorosi.” Uomini anche qui come soggetti attivi contro la violenza, che non rappresentano una mascolinità egemonica, ma sperimentano nella quotidianità formule e modelli differenti. È pertanto possibile costruire alleanze con uomini che non agiscono maschilità tossiche.
Avon, insieme a Cerchi d’Acqua – Cooperativa Sociale che dal 2000 opera come centro Antiviolenza a Milano – ha lanciato nel 2013 la campagna di comunicazione Uomo Contro Donna: fermiamo questo match, volta a denunciare questo fenomeno negativo sempre più in crescita. Il volto della campagna era il campione di rugby Mauro Bergamasco.
Sottolinea Magaraggia:
“Si è scelto di mostrare una maschilità egemonica, quella di un rugbista, che lancia un messaggio contro la violenza. Ogni immagine è corredata da altrettante headline molto eloquenti: “Ogni volta che una donna viene picchiata è una sconfitta per tutti”, “Per molte donne l’incontro più difficile è tra le mura di casa”, “Una donna su tre ha subito violenza da un uomo: siamo dei perdenti”, “Intimidazioni, ricatti, pugni, stupri. E non c’è arbitro che intervenga”. Inoltre, per non restringere l’ambito alla sola violenza fisica non sono stati mostrati volti femminili tumefatti. Questa campagna pubblicitaria è un ottimo esempio di traduzione della complessità di questo fenomeno in immagini.”
Sempre di questo periodo è la campagna Intervita: “Contro la violenza sulle donne ci servono altri uomini”.
Interessante in questo senso anche la campagna istituzionale Five men – Cose da uomini: “L’obiettivo principale è quello di abbandonare rappresentazioni di donne come vittime deboli maltrattate, e mostrare l’altra faccia del problema: il comportamento sbagliato di uomini. Il progetto si propone quindi di creare consapevolezza sul tema, coinvolgendo positivamente uomini e ragazzi e mettendoli in prima linea in questa lotta come attori del cambiamento.”
Dall’estero ci arrivano alcuni interessanti spunti. Stesse finalità di presa di parola ha il progetto Step in Speak up contro le violenze sessuali nei campus (qui e qui) o quest’altro.
Interessante anche questo programma che coinvolge studenti, insegnanti e famiglie.
Insomma, è già da qualche anno che ci si muove in questa direzione.
Tutto questo risulta assai chiaro se facciamo attenzione al modo in cui usiamo il linguaggio, mutando chi è al centro e viceversa fuori dal cono di luce. Come su un palcoscenico. Mi sembra utilissimo questo “gioco” della linguista femminista Julia Penelope (tratta da Jackson Katz, fonte):
“Si inizia con una frase molto semplice: Giovanni ha picchiato Maria. Giovanni è il soggetto. Ha picchiato è il verbo. Maria è l’oggetto. Chiaro.
Ora passiamo alla seconda frase, che dice la stessa cosa in forma passiva. Maria è stata picchiata da Giovanni. Qualcosa è accaduto in una sola frase. Abbiamo spostato la nostra attenzione da Giovanni a Maria, e si può vedere che Giovanni è molto vicino alla fine della frase, tanto vicino da cadere fuori dalla nostra mappa psichica.
Nella terza frase, Giovanni è scomparso, e la frase diventa: Maria è stata picchiata, e ora tutto riguarda Maria. Non pensiamo più a Giovanni. Il discorso è ora totalmente incentrato su Maria.
Negli ultimi anni, abbiamo poi usato come sinonimo di picchiare il termine maltrattare, così la frase è diventata Maria è stata maltrattata. In questa sequenza, la frase finale che consegue è: Maria è una donna maltrattata. Così ora Maria è diventata quello che Giovanni le ha fatto, ma senza che Giovanni sia nominato e, come abbiamo visto, lui da tempo ha lasciato la narrazione.”
Riportare al centro l’uomo significa parlare di come la violenza gioca un ruolo fondamentale nella costruzione di maschilità.
Tante iniziative che a volte appaiono come tante gocce nel mare, perché ancora qualcosa deve maturare nel profondo. A volte penso che forse nemmeno la generazione di mia figlia riuscirà ad uscire completamente da questo tunnel. I messaggi attorno sono sconfortanti e tutto diventa come la tela di Penelope. D’altronde anche il ministro dell’Interno sostiene che le violenze sono in calo, riferendosi ai soli stupri e di fatto occultando tutte le altre forme di violenza e tutti i casi che non emergono perché non denunciati (chissà perché le donne non denunciano, forse perché poi restano sole e vengono rivittimizzate e non credute).
I media partecipano tuttora a mantenere di fatto quasi del tutto immutato il sistema culturale.
Sempre Magaraggia cita la ricerca condotta da Gius e Lalli nel 2014, dalla quale emergono:
“macro retoriche utilizzate dai quotidiani nazionali nel dare notizia dei femminicidi, che possono essere raggruppate in: la deresponsabilizzazione dell’uomo violento, l’alterizzazione e mostrificazione degli uomini violenti, l’attribuzione della colpa alla donna vittima/sopravvissuta alla violenza e infine l’utilizzo del frame passionale per descrivere i femminicidi (Monckton-Smith 2012).
Queste retoriche permettono di interpretare la violenza di genere in due modi specifici: proteggendo la parte forte della società, da un lato ed evitando i sentimenti di rabbia e indignazione nel grande pubblico, dall’altro.” Si enfatizzano, tra gli uomini violenti, coloro che appartengono alle categorie “più deboli (devianti, quelli con problemi psicologici, quelli che abusano di sostanze, i migranti, coloro che hanno perso il lavoro)”, esentando e non nominando tutti gli altri, di fatto deresponsabilizzandoli, spesso ritenendo colpevoli o corresponsabili le stesse donne vittime di violenza. Così si costruisce “un frame narrativo che protegge la parte forte della società, gli uomini bianchi, normodotati, caratterizzati da normalità psichica e comportamentale che picchiano, violentano, controllano, uccidono le (ex) compagne. Il «male blaming può avvenire solamente se al di fuori dei confini della nostra normale umanità» (Gius e Lalli 2014, 69 trad. nostra), e ancora oggi «nell’immaginario e nella rappresentazione collettiva non c’è posto se non per autori già accreditati come diversi, cioè come soggetti che per cause cliniche o sociali siano già collocati fuori o ai margini della cosiddetta normalità» (Ventimiglia 1996, 20).”
Ecco come “si evita di suscitare rabbia e indignazione nel grande pubblico connotando la violenza di genere come il risultato dell’amore e della passione, piuttosto che del potere e del possesso, agganciando quindi questo fenomeno a un ordine semantico di passione, idolatria, affetto, perdita del controllo, piuttosto che a quello di autorità, dominio, egemonia e potestà. Questa strategia ci permette di convivere con questo fenomeno senza rimettere in discussione l’ordine di genere, provando compassione (per le vittime e per gli autori), invece che rabbia (Gill and Kanai 2018).”
Questo è esattamente ciò che accade nella mentalità di uomini e donne, l’opportunità di sentirsi lontani dal problema, come se la violenza appartenesse a un altro mondo alieno e distante.
Una specie di protezione collettiva, che essendo di matrice culturale, coinvolge anche le donne.
Che meraviglia di Paese. Siamo proprio certi di non avere bisogno di un intervento massivo di educazione alle relazioni e all’affettività a partire dalle scuole dell’infanzia? Siamo proprio certi che sia tutto ok in termini di rispetto e parità di genere?
Ogni intervento educativo, che sollecita una riflessione su queste tematiche, è un percorso difficile, che crea fastidio, terremota certezze e modelli che abbiamo adoperato in automatico e che ci sono sembrate normali, fino a quando non visualizziamo ciò che celano e implicano. Tutto resterà pressoché immutato, fino a quando non permetteremo che il discorso attorno alla violenza emerga in modo autentico e diffuso, finché non riusciremo a superare forme di negazione personali (per autoproteggerci da qualcosa che non è lontana, ma vicina) o collettive (proteggere la cultura di genere, pensando all’autore come un “monstrum”, altro da noi, allontanando il problema e negando la “normalità” dell’uomo violento).
Infine, serve un patto educativo intergenerazionale, altrimenti anche gli interventi educativi saranno vani, si sgretoleranno in un batter di ciglia di fronte a un prof o a un adulto che dirà loro che sono tutte balle e che va tutto bene così, che non c’è nessun problema culturale, che è tutto frutto di una parte di donne che ce l’ha su con gli uomini. Intanto il patriarcato gongola e si gode la scena.
Jackson Katz spiega bene il meccanismo, da cui, per fortuna, non ci facciamo fermare:
“Molte donne che hanno cercato di affrontare questi temi, oggi come in passato, spesso sono state ostacolate. Sono state insultate con epiteti sgradevoli come: odiatrici di uomini e il disgustoso e offensivo femminazi. Questa pratica ha un nome, si chiama: uccidere il messaggero. È perché le donne agiscono e parlano per sé e per le altre donne (ma anche per uomini e ragazzi). Per questo si dice loro di sedersi e stare zitte, per mantenere il sistema attualmente in vigore, perché non ci piace quando la gente vuole affondare la barca. Non ci piace quando le persone sfidano il nostro potere. È meglio che si siedano e stiano zitte, in fondo. Ma meno male che le donne non lo hanno fatto! Meno male che viviamo in un mondo dove c’è una leadership femminile forte, che contrasta tale tendenza.”
2 commenti
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esiste anche una maschilità positiva, un uomo che picchia una donna non ha nulla di virile