Per la prima volta, alla 58° Biennale Arte di Venezia (maggio – novembre 2019), il numero delle artiste ha superato quello degli artisti.Fu un evento rivoluzionario, narrato con efficacia dalla mostra The Unexpected Subject. 1978. Art and Feminism in Italy (4 aprile-26 maggio 2019) curata da Marco Scotini e Raffaella Perna.
Un risultato clamoroso e impensabile solo quarant’anni fa, quando Mirella Bentivoglio organizzò la mostra Materializzazione del linguaggio nell’ambito della 38° Biennale di Venezia. Non fu un evento felice: gli amministratori locali la trattarono come un evento minore: e si sbagliavano. Fu un evento rivoluzionario, narrato con efficacia dalla mostra The Unexpected Subject. 1978. Art and Feminism in Italy (4 aprile-26 maggio 2019) curata da Marco Scotini e Raffaella Perna.
Il percorso, nelle sale dei Frigoriferi Milanesi, è un tripudio di materiali, immagini, invenzioni, che propone – per la prima volta – una ricostruzione delle relazioni fra le arti visuali e il movimento femminista in Italia. L’apertura è concettuale e prende le mosse dal Manifesto della rivista “Rivolta Femminile” (Roma 1970) di Carla Lonzi, Carla Accardi ed Elvira Banotti. E il Manifesto andrebbe tenuto in mano, come una guida, per comprendere l’apparente eterogeneità di quello che il visitatore incontra. Sono modi insoliti, inusuali, innovativi di interpretare la comunicazione, nel rifiuto dichiarato dei linguaggi dell’arte stabiliti dagli uomini. No: ancora di più. Di tutti i linguaggi cui ha dato vita il patriarcato. Patrizia Magli scriveva [Il segno della differenza, 1985]:
Creature più dedite all’ascolto, le donne oggi si affermano come soggetti del discorso e, in questo modo, attraverso il duello di parola e ascolto, attraverso la complicità di parola e silenzio, tentano di attraversare tutta l’avventura del linguaggio.
The Unexpected Subject mostra come quelle artiste siano andate oltre: come abbiano dato un significato diverso al logos, da millenni proprietà degli uomini e presunta sostanza di qualche Dio. Un logos che, per troppo tempo, è stato anche nomos, norma, regola, ordine. A scapito di una naturalità rivendicata con forza, in nome di una rivoluzione necessaria non per le donne, ma per tutto il genere umano. Così Irma Blank e Hanne Darboven destituiscono di ogni significato i segni utilizzati per le parole: è pura illusione ottica, che sottendano qualcosa. Tomaso Binga usa il suo corpo al posto dei segni dell’alfabeto: strumento certo più vero, tangibile, riconoscibile. Ancora il corpo aggredisce quasi il visitatore nelle immagini di Paola Mattioli, Carole Scheneemann, Lisetta Carmi, Marina Abramovic. Ma basterebbero le mani, da sole, a raccontare una storia: come in Ketty La Rocca. In questa variegata sostituzione dei segni e dei significati utilizzati dal potere maschile, Clemen Parrocchetti compie un’operazione ancora diversa: utilizza gli oggetti del quotidiano femminile e il corpo stesso della donna, in composizioni destabilizzanti, dove i nessi usuali sono scardinati e l’onirico la fa da padrone.
“La forza dell’uomo è nel suo identificarsi con la cultura, la nostra nel rifiutarla”, recitava il Manifesto. La forza delle donne è nel rifiuto di quella cultura, fondata sul principio di egemonia; la forza delle donne è nel ritorno alla naturalità, alla solidarietà, alla vera essenza della specie umana, al linguaggio che unisce e non divide.
The Unexpected Subject narra tutto questo; e racconta, senza sbavature, di quanto potente sia la forza creativa femminile. E duratura, se un’artista come Renate Bertlmann, da quegli anni è arrivata a questa 58° Biennale con autorevolezza. May You Live in Interesting Times: questo il titolo scelto da Ralph Rugoff per l’attuale edizione: ma tempi interessanti furono certo anche gli anni Settanta. Anzi: necessari. Il decennio fra il ’68 e il ’78 cambiò per sempre la nostra percezione della storia e della sua narrazione. La coscienza critica non fu più, da quel momento, appannaggio di pochi, ma divenne strumento di un’intera generazione. Le donne la fecero propria e, grazie a loro, anche se con estenuante ed elefantiaca lentezza, forse il mondo ha ancora una speranza.
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