“Vieni, che fai… ascolta”. La Musica e la consolazione.
Consolava il suo cuore suonando la cetra armoniosa.
Iliade, IX, vv. 186-189
Nel mondo greco il termine mousikè, nel significato del complesso delle arti a cui presiedono le Muse, definiva non solo l’arte dei suoni, ma anche la poesia e la danza. La cultura ellenica arcaica fu essenzialmente orale e si manifestava e diffondeva attraverso pubbliche performances. In tali occasioni, la parola, ma anche la melodia, il ritmo e il gesto, avevano una funzione fondamentale. Il compositore dei canti per le occasioni di festa, il poeta che cantava nei conviti, l’aedo itinerannte che narrava accompagnato dalla cetra le gesta degli eroi, tutti erano portatori di un messaggio, monodico o corale, proposto al pubblico in una forma il più possibile allettante e persuasiva. Gli strumenti tecnici della poesia, le risorse del linguaggio figurato e traslato, l’armonia dei metri unitamente alle melodie, favorivano l’ascolto della narrazione e la memorizzazione del materiale, sapendo far riconoscere agli ascoltatori moduli e formule che facevano parte di una memoria collettiva e di un’identità culturale. Non è casuale che il termine mousikòs anér designasse l’uomo colto, in grado di recepire il messaggio poetico nella sua completezza.
L’unità di poesia, melodia e azione gestuale nella cultura arcaica e classica, così agognata in seguito da molte forme e movimenti artistici della cultura occidentale dall’antico alla contemporaneità, condizionò l’espressione ritmico-melodica alle esigenze del testo verbale. Ma la compresenza dell’elemento musicale e orchestico, accanto all’elemento testuale, in quasi tutte le forme della comunicazione testimoniò una diffusione generalizzata della musica fin dai tempi più remoti, come attestano svariate fonti letterarie e figurative. Numerosi sono gli accenni all’attività musicale come elemento pervasivo della cultura ellenica già nei poemi omerici. Nell’Iliade i rappresentanti degli Achei, inviati al santuario di Apollo a Crisa, sulla costa dell’Asia minore, dopo aver compiuto il sacrificio espiatorio placano l’ira del dio intonando in coro il peana a lui dedicato. Nelle scene di vita agreste e cittadina, raffigurate da Efesto sullo scudo di Achille, suonatori e cantori accompagnano le cerimonie nuziali, il lavoro dei campi, le danze dei giovani. Nell’Odissea la capacità della musica di sedurre e incantare l’animo è assegnata alle figure di Circe e delle Sirene, ma sono figure di grande rilievo sia per l’aspetto dell’autorità personale, sia ai fini della narrazione, i citaredi Femio di Itaca e Demodoco di Corcira. Odisseo piange nell’ascoltare l’aedo presso la corte dei Feaci e proprio dalla forza e dalla potenza della musica scaturisce quello che oggi potrenmmo definire un vero e proprio coming out, svelando la propria identità di sovrano di Itaca di fronte a un pubblico alquanto incredulo e stupefatto e che, fino a pochi minuti prima, lo considerava semplicemente un povero profugo ospite. Ma si sa, per il mondo greco, l’ospite è sacro e gli dei puniscono atrocemente se per qualsiasi motivo viene meno il dovere dell’ospitalità.
Certo è che tutti i testi lirici greci, arcaici e classici, furono composti per essere cantati in pubblico con l’accompagnamento strumentale e, nelle rappresentazioni drammatiche, il canto corale e solistico ebbe, in particolare nel periodo classico, un’importanza almeno pari a quella del dialogo e dell’azione scenica. La musica fu presente in tutti i momenti della vita associata del popolo greco, nelle cerimonie religiose, nelle gare agonali, nei simposi, nelle feste solenni, perfino nelle contese politiche, come testimoniano i canti di Alceo e di Timocreonte di Rodi. La funzione della musica apparve di estrema rilevanza, tanto che la disciplina delle varie manifestazioni musicali era compito delle autorità politiche della polis. Alcune fonti letterarie confermano che la capacità di suonare era prerogativa, in particolare, di chi sapeva curare anche il corpo. Nel De Musica pseudoplutarcheo viene riportato che il musicista Chirone fosse in grado di insegnare, oltre alle nozioni musicali, anche le norme sociali e giuridiche, curare le malattie e somministrare medicamenti. Tali prerogative inserivano l’individuo musico entro un’aurea sacrale e magica, conferendo alla musica una funzione sciamanica e persino taumaturgica.
In tutta la classicità, la musica fu considerata come componente essenziale della paideia, l’educazione dei giovani e, sulla stessa lunghezza d’onda, persino in epoca medievale la musica verrà inserita tra le arti liberali del quadrivio, insieme a matematica, geometria e astronomia. Damone, maestro e consigliere di Pericle, con la teorizzazione dell’ethos dell’harmoniai e, in seguito, Platone ed Aristotele, approfondirono in particolare la funzione formativa della musica e gli effetti sulla psiche umana. Essi riconobbero il potere “psicagogico” della musica, che spinge, smuove e conduce l’animo umano. Secondo i Greci, alcuni nomoi o melodie, come il modo dorico, suscitatore di pensieri virili e forti, e il modo frigio, adatto alla pacificazione degli animi, erano considerati necessari alla vita della polis e ispiravano stati d’animo positivi, educando alla virtù, alla saggezza e alla giustizia; altre melodie potevano invece indurre sentimenti negativi e non se ne doveva abusare, o persino si riteneva fossero da evitare poiché interferivano sul controllo e sull’equilibrio razionale dell’individuo, attribuendo alla musica la capacità di scuotere e persino turbare l’animo umano.
Molti studi critici hanno analizzato con particolare attenzione la mitologia della “reminiscenza sonora” e la capacità della musica di saper consolare l’anima. Un esempio significativo di musicoterapia ante litteram si riscontra già nel IX libro dell’Iliade quando Achille, lontano dagli accampamenti, nella pausa forzata alle armi, suona accompagnandosi con la phorminx per alleviare le pene del suo animo. Achille canta le gesta degli eroi, ovvero se stesso.
Consolava il suo cuore suonando la cetra armoniosa, la cetra cesellata, bellissima, munita di un ponte d’argento, che dal bottino scelse egli stesso dopo aver distrutto la città di Eezione; la cetra consolava il suo cuore, cantando gesta di eroi, di fronte a lui sedeva in silenzio Patroclo, solo, e attendeva che il discendente di Eaco ponesse fine al suo canto.
La musica sola ha la capacità di consolare il cuore ferito di Achille e di soccorrerne gli affanni. La cetra è “armoniosa” e il ponte che trasmette la vibrazione delle corde è stato relizzato in argento. Il poeta ci racconta che il metallo prezioso proviene da un bottino di guerra che si presume prestigioso, la cattura di un’intera città di cui Achille è l’artefice principale. Il valore puramente economico dell’argento s’identifica con le valenza simbolica del supporto prezioso, in grado di conferire sacralità al suono prodotto dall’eroe per definizione. Per quanto l’amato Patroclo lo ascolti in silenzio, seduto di fronte a lui, Achille è come se fosse in una dimensione altra, fortemente individuale, raffigurato nella solitudine dell’eroe e del musico-vate che solo dialoga con la propria arte. Egli rivendica e moltiplica se stesso e la propria identità nel canto delle gesta degli eroi che ripropone in veste di protagonista e di cantore. Omero, oppure un intero popolo che si fa poeta, mette in scena una sorta di flashback in cui il protagonista principale, attraverso la reminiscenza sonora, rievoca i suoi momenti “felici”, ciò a cui è predestinato e che ora è temporanemente lontano, così come vuole l’espediente letterario della narrazione, ovvero la sua vita di guerriero ed eroe; tuttavia, la funzione principale del canto è quella di consolare e acquietare l’ira di Achille, sentimento su cui s’incentra il poema. La musica consola e distrae per la durata del solo canto, in una sospensione temporanea dal piano della realtà.
Invece, nel racconto mitico di Orfeo il musico, è possibile delineare, nella duplice componente apollinea e dionisiaca, la funzione primaria del canto e del suono dello strumento. Orfeo, uno tra gli Argonauti alla riconquista del vello d’oro che grazie al suo canto salva più volte i compagni della mitica spedizione, concentra in sé la molteplicità di valenze e di carattere proprie della funziona della musica: apotropaica, purificatoria, iniziatica e consolatoria. Le molteplici varianti mitiche sulla figura di Orfeo si dispiegano intorno a tre nuclei fondamentali. Il ruolo di Orfeo cantore e suonatore di cetra, capace d’incantare e trasformare la natura tutta sovvertendone le regole, grazie al potere pervasivo della musica; l’amore infinito per Euridice, la sposa, e il viaggio ultraterreno per riportarla in vita, grazie al potere suasorio del suo canto in cui la parola orfica diviene sinonimo di capacità seduttiva della musica; la morte di Orfeo, in cui la musica, il canto e le sonorità giocano un ruolo ancora una volta nodale. Musica e poesia, poetica dell’incanto, amore e duplice perdita, catabasi, disfatta, consolazione e morte violenta, pochi racconti mitici assommano in sé tematiche così numerose e coinvolgenti, alimentando e arricchendo le letterature e le produzioni artistiche figurative di tutti i tempi. Per tali ragioni, la nascita del melodramma coincide con la riproposizione del mito di Orfeo. La musica mette in scena il musico per eccellenza alle origini della civiltà. A partire dall’Euridice di Jacopo Peri nel 1601 e dalla “Favola di Orfeo” di Monteverdi del 1607, la musica e il canto poetico, materia essenziale del comporre un’opera, divengono essi stessi soggetto drammaturgico.
Ma è sulla funzione consolatoria della musica che si articola una delle più famose arie d’opera settecentesche, composta da Christoph Willibald Gluck per l’Orfeo ed Euridice di Ranieri Calzabigi, i due riformatori del teatro melodrammatico settecentesco. L’opera fu messa in scena per la prima volta nel 1765 al Burgtheater di Vienna e mirava alla realizzazione di un ideale drammaturgico che aspirasse al modello grecizzante del sublime, alla ricerca di “semplicità, verità e naturalezza”, in contrapposizione alle istanze sceniche proprie di tutta la produzione operistica barocca e in particolare il teatro d’opera veneziano che aveva inondato i propri contenuti musicali e testuali sulla riproposizione di ridondanze, meraviglie, colpi di scena e mirabolanti eccessi. Ancora una volta, la ragione del voltarsi indietro di Orfeo, l’errore o la follia improvvisa delle fonti classiche, Virgilio e Ovidio, muta nell’opera di Gluck. Nel terzo atto, Euridice, che ha appena incontrato il suo sposo nell’oscurità degli inferi, non comprende la ragione dell’affrettarsi di Orfeo, il quale evita di guardarla negli occhi e di spiegarle il motivo per cui non ricambia le sue effusioni, affrettandosi verso l’uscita; la giovane sposa, d’altro canto, mostra di patire l’indifferenza dell’amato, presumendo un terribile segreto e affermando di preferire persino la morte all’indifferenza apparente dell’amato. Orfeo, lacerato dalla sofferenza della donna e abbandonato dalla ragione, più non resiste e non può che voltarsi indietro con impeto, quasi per rassicurarla del suo amore imperituro e del desiderio di lei. Non appena intuisce il punto di non ritorno, dovuto al suo errore irreparabile, Orfeo canta un dolore tutto umano che sa di perdita definitiva.
Che farò senza Euridice!
Dove andrò senza il mio ben!
Euridice! Oh Dio! Rispondi,
io son pure il tuo fedel.
Euridice! Ah non m’avanza
più soccorso, più speranza
né dal mondo, né dal ciel!
Che farò senza Euridice!
Dove andrò senza il mio ben!
(…).
L’invenzione musicale di Gluck, permeata di classicismo proteso all’equilibrio formale, appare subito straordinaria e di grandissimo impatto scenico e consiste nel creare una distonia profonda tra il contenuto testuale del canto e l’atmosfera sonora del rondò tripartito. Il testo lirico è drammatico e sofferto, Orfeo esprime lo sgomento dell’uomo, colpito da una sventura improvvisa di cui si sente dolosamente causa. Egli canta la disperazione totale, senza speranza alcuna mista all’incapacità di vivere senza l’oggetto del proprio amore, Euridice. Si tratta di una perdita totale che mette in gioco persino la propria identità e del proprio essere, riconoscendo nella relazione il bene sommo della propria esistenza. La strada è nulla senza l’amata. In apparente contrapposizione, la musica ci disorienta e sembrerebbe invece raffigurare tutt’altra atmosfera. E’ creata da un tessuto timbrico-melodico lieve e soave, composto nella tonalità di Do maggiore, per convenzione una tonalità solare, gioiosa e luminosa. Orfeo, artefice del grande potere di persuasione della musica sulla natura circostante, sublima nell’aria che canta a piena voce il proprio dolore inserendolo in un melodia che tutto sa fuorchè di dolore e disperazione lacerante. E così, piano piano, è come se Orfeo desse modo al suo canto e al suo infinito potere, in tutta la sua vaghezza di contorni ondeggianti e indefiniti, di quietarsi e assegnare alla musica il contenuto di parole drammatiche e passionali che nessuno al mondo mai vorrebbe proferire. Solo il canto consola e rasserena, la disperazione più profonda si placa in una musica di una dolcezza senza pari che solleva dal baratro del lutto che non ha speranza alcuna. In questa contraddizione sta il grandissimo fascino dell’esistenza che si pernia su opposti – amore e morte, felicità e dolore – e la consolazione offerta su un piatto d’argento dalla musica. Forse le leggi espressive della musica sono di natura differente, potendo realizzare fino in fondo, intimamente, quelle magie effimere e illusorie, quella reale sospensione dalla dolorosa e terribile percezione del transeunte, del precario, del dolore e delle contraddizioni umane che al discorso verbale forse sono precluse.
Alla musica subentrerà il dio Amore, in grado di far desistere Orfeo dall’ipotesi di suicidio per ricongiungersi con l’amata, riportando persino in vita Euridice, festeggiata nel tripudio di un finale e bucolico lieto fine nel magnifico tempio dell’Amore. Dopo la musica, quindi, solo l’amore.
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