Tre minuti è l’incipit del sito di Mariola, l’apertura su una serie di tematiche che ha affrontato e affronta in relazione ai fenomeni che governano lo sviluppo urbano.
“3 MINUTES
3 minuti: per scrivere e per leggere
Scrivere e leggere in 180 secondi.
Quante parole contengono 180 secondi?
Bastano 3 minuti per costruire senso con le parole?
Per descrivere la complessità?
Forse….
Forse soltanto per capire che abbiamo bisogno di più tempo.”
Tre minuti è l’incipit del sito di Mariola, l’apertura su una serie di tematiche che ha affrontato e affronta in relazione ai fenomeni che governano lo sviluppo urbano. Mariola si definisce infatti una Urban Thinker; io la definirei una donna dal pensiero molto raffinato e sapiente ammantato da un grande senso dell’ironia. La sua raccolta di racconti brevi intitolata “Buon gusto?” restituisce un’analisi lucida e schietta della società contemporanea e delle sue dinamiche contraddittorie. Come lei stessa dichiara, si tratta di “un’esperienza narrativa personale rivolta a chi vuole confrontarsi con una visione insolita del complesso mondo di oggi”.
Sei stata incoraggiata dalla tua famiglia nella scelta di studiare architettura?
Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia emancipata. Mi hanno sempre riservato fiducia e consentito autonomia di scelta. Ho studiato architettura perché mi affascinava l’idea di progettare. Era ancora un’idea in nuce, poco sgrezzata. Sostanzialmente l’idea di provare a cambiare quello che non mi piaceva, costruire un’alternativa, non rimanere indifferente o esterna.
Architetto o architetta?
I nomi, e in generale le lingue, cambiano e si evolvono perché acquistano un senso rispetto al contesto di valori in cui vengono pronunciati. In questo momento penso che ‘architetta’ sia una definizione progressista. A mio avviso le reazioni irritate di alcune donne rivelano la ‘fatica’ della parità; mi sembra che esprimano soprattutto il timore che la declinazione al femminile evochi un titolo di secondo livello.
Cosa significa per te fare architettura oggi?
Innanzitutto capire, porsi delle domande. Il progetto è una risposta formulata per risolvere un problema e quindi la premessa più importante è quella di tracciare il contorno della domanda. Non è mai una risposta ‘neutra’, può essere inconsapevole, sciatta, banale perché inconsapevole sciatte e banali sono le domande che ci poniamo. Viceversa ogni progetto, anche il più minuto, può essere il pretesto per porsi domande affascinanti e iniziare un percorso di consapevolezza allargato. Ho imparato a pormi una domanda iniziale utile per sottrarre anche il progetto più piccolo alla routine del professionismo senza anima: “come sarebbe questa cosa nel mio mondo ideale?” Cambia completamente la prospettiva. Ogni volta devi fare i conti con una tua visione del mondo, con una filosofia che disegna una cornice di senso.
A chi ti ispiri?
Sono una ragazza ‘leggera’. Mi innamoro continuamente. Mi piace il mondo con le sue infinite differenze. Mi piace capire. Mi ispiro quasi sempre a chi è diverso da me. Alcuni dei pensieri più interessanti sulla città li ho trovati in discipline diverse dall’architettura. Ballard, scrittore di fantascienza , per esempio, è per me uno dei lettori più acuti del territorio contemporaneo. Comunque, rimanendo in una dimensione ‘mitica‘ amo Jane Jacobs per l’attivismo e l’impegno sociale; Francine Houben ( Mecanoo) per la capacità imprenditoriale; Wislawa Szymborska per la capacità di distillare nella sua poesia il senso ultimo delle cose; Alejandro Aravena per la sua capacità di rifondare il senso di questo mestiere; Kongjian Yu ,‘gigantesco’ paesaggista cinese….. E ancora. Penso che la Scuola di Amsterdam, tra il 1910 e il 1930, abbia dato vita ad una delle massime espressioni della civiltà urbana nell’Europa moderna, fusione straordinaria di visione sociale, qualità dell’architettura e della città. Una ricerca profonda per dare bellezza e dignità alle abitazioni operaie. Penso che M. De Klerk sia un meraviglioso architetto a cui ispirarsi per amare questo mestiere e capire il suo senso più profondo.
E cos’è per te la bellezza?
È un progetto collettivo, un’aspirazione condivisa. È ciò che cresce fuori dagli stereotipi, dagli ismi della maniera, dell’ideologia, dell’accademia. È la ricerca di ciò che ancora non c’è, la nostalgia di ciò che non c’è più e rivive nella nostra memoria e nella nostra capacità di interpretazione. La bellezza appartiene al passato e al futuro, nel presente non è mai interamente disponibile. Nel presente è ansia, progettualità, rischio, investimento sul futuro. Di certo non è un canone assoluto e rigido.
Come contestualizzi la sensibilità femminile in architettura?
In questo momento storico il mestiere che abbiamo scelto dev’essere completamente ridefinito perché il mondo sta attraversando una crisi di sistema senza precedenti. E’ un mondo fragile che ha bisogno di cura, di riequilibrio, di attenzione e di inclusività: è un mondo in cui le fasce ‘deboli’ stanno aumentando vertiginosamente e in cui le città sono lo specchio di un’ingiustizia spaziale evidente, alimentata da grandi processi di gentrificazione, di consumo esasperato, di marginalizzazione delle differenze. E’ un mondo di ‘città chiuse’ dove i cittadini sono progressivamente privati di spazi di autodeterminazione e dove gli ascensori sociali funzionano sempre meno (Richard Sennet). E’ un mondo dove il mercato immobiliare delle grandi trasformazioni è sempre più nelle mani di logiche finanziarie atopiche che ‘estraggono valore’ anziché crearlo, bruciando capitali sociali e ambientali. E’ un modo di espulsioni (Saskia Sassen). Se la prospettiva è quella di progettare per il mondo, prima ancora che di fornire risposte, questa fase storica ci chiede di porre domande adeguate. E se la prospettiva di chi progetta è quella di porre al mondo nuove domande, per lo sguardo femminile si aprono orizzonti vasti e fondativi. In questa prospettiva il gender gap da debolezza diventa valore aggiunto in termini di esperienza vissuta, motivazione, creatività, nuovo immaginario, marketing strategico.
Affermarsi professionalmente è più difficile per le donne architetto?
I numeri sono chiari e non lasciano dubbi: il gap esiste. Nel mestiere dell’architettura le donne, che pur sono molto numerose e brave nella fase della scolarizzazione universitaria, continuano ad essere meno visibili, a gestire ruoli subalterni negli studi, a guadagnare meno, ad essere presenza minoritaria nelle conferenze, nei convegni, nelle commissioni. Lo attestano i numeri: senza numeri la questione femminile è fortemente manipolabile e quasi sempre la manipolazione è finalizzata ad indebolirne la portata.
Sei mai stata discriminata durante la tua carriera?
Mai in forma plateale. La vera discriminazione è quella che attiene in generale alla organizzazione sociale e al fatto che questo paese sia ancora molto lontano da un’effettiva possibilità di conciliazione della vita professionale con la vita reale. Sono certa che, a parità di investimento personale, se fossi nata in Olanda avrei fatto molto di più da tutti i punti di vista.
Qual è il progetto architettonico che ti è rimasto nel cuore?
È sempre l’ultimo. Ora sto dedicandomi al progetto esecutivo del primo lotto dei lavori per la riqualificazione del Centro Piacentiniano di Bergamo.
Nel 2018, insieme a un team di colleghi molto bravi, (Luigino Pirola e Simone Zenoni paesaggisti, Gianluca Gelmini architetto, Elena Franchioni specialista in restauro, Carlo Peretti ingegnere) abbiamo vinto il concorso europeo bandito dall’amministrazione. È un lavoro sullo spazio pubblico per eccellenza – il centro della città – che tocca tutti i temi di cui mi sono appassionata negli ultimi anni: il rapporto tra conservazione e innovazione, i nuovi stili di vita della società che cambia, le nuove percezioni di un luogo che condensa gli Iconemi del nostro territorio.
Cosa pensi dell’attuale situazione professionale delle donne architetto?
Vedo donne attorno a me vivaci, bravissime, attive, capaci di esprimere modalità e contenuti per la rifondazione del senso generale di questo mestiere. Da Bergamo, il gruppo RebelArchitette ha saputo attivare in breve tempo una rete internazionale intorno al progetto di empowerment al femminile nel mondo della professione, ancora lontano da un’effettiva parità di genere. Grazie a Francesca Perani che lo ha fondato, il gruppo sta attivando sinergie virali molto efficaci per valorizzare la presenza femminile nel mondo dell’architettura.
Che rapporto hai, nel tuo lavoro di architetto e nel quotidiano, con la tecnologia?
Sono passata dal tecnigrafo al computer all’inizio degli anni 90, è stato un cambiamento totale, una rialfabetizzazione su tutti i fronti, affascinante e faticosa anche perché, a partire dal basic con tavoletta grafica, ho dovuto ricominciare da capo più volte, attraverso il pc fino allo smartphone. Penso di aver vissuto in una sola vita i cambiamenti che in passato attraversavano diverse generazioni. Le nuove tecnologie mi appassionano: mi sono innamorata dei social, di Facebook e di Instagram. Essendo nata nell’epoca di Gutenberg (adoro i libri di carta) riesco a cogliere le differenze abissali tra il prima e il dopo, mentre un nativo digitale digitale da tutto per scontato.
Com’è organizzato il tuo lavoro, cosa riesci a delegare e cosa segui personalmente?
Lavoro in rete. Ho ridotto al minimo il peso della struttura e collaboro di volta in volta con altri scegliendo le competenze idonee per risolvere al meglio il progetto che devo affrontare. Penso che l’organizzazione ottimale sia quella in cui ciascuno, a pari dignità, possa fare quello che è capace di fare bene. Non sopporto più l’approccio tuttologo di chi pensa di poter fare tutto da solo.
Che suggerimento daresti alle giovani colleghe? Consiglieresti a una ragazza di iscriversi ad architettura?
Cooperazione è la parola chiave. La competizione sfrenata che domina la filosofia contemporanea e i sistemi sociali produce danni enormi e sta facendo collassare il pianeta. Cooperazione come strumento per produrre risultati efficaci ed efficienti e, soprattutto, per vivere meglio insieme e non contro gli altri. Curiosità, apertura, capacità di ascolto. L’Architettura è una disciplina aperta e affascinante.
Un oggetto di design e un’architettura a cui sei particolarmente affezionata
Nel mondo del design mi piace molto Nendo. È un team composto da molte persone fondato da Oki Sato: il loro lavoro rende evidente il senso primario del ‘progetto ‘, ricerca profonda capace di unire le tecnologie e i materiali alla forma, agli usi, al senso ultimo degli oggetti. Il risultato è una bellezza cristallina, senza tempo, oltre le mode, oltre il consumo nevrotico, archetipica, fondativa. Poetica. Per quanto riguarda l’architettura ho sempre guardato affascinata la yurta, tenda mongola: ha caratteristiche straordinarie. È morbida, ecologica, smontabile, accogliente, calda e colorata. È forse l’architettura femminile per eccellenza.
Sul tuo tavolo da lavoro non manca mai….
Lo smartphone e una montagna di libri.
Una buona regola che ti sei data?
Non fingere di essere diversa da quello che sono.
Il tuo working dress?
Ho imparato non solo ad accettare ma ad essere orgogliosa del mio essere naturalmente ‘fuori luogo’. Spesso passo in pochi minuti dal cantiere al tavolo di una riunione formale e viceversa: l’importante è essere lì con il cervello e il cuore, portare contenuti di senso.
Città o campagna?
Averle poste in competizione è un problema gigantesco. Mi schiero per l’irrinunciabile patto di alleanza tra le due realtà.
Qual è il tuo rifugio?
Le persone che amo. Bruno e la mia famiglia. Sono loro il mio ‘luogo’.
Ultimo viaggio fatto?
È in corso. Sicilia orientale. Il miracolo del Val di Noto. Come la distruzione di un terremoto devastante – 1693 – sia diventata l’opportunità della ricostruzione straordinaria del barocco siciliano.
Il tuo difetto maggiore?
L’insaziabilità
E la cosa che apprezzi di più del tuo carattere?
La voglia di vivere.
Un tuo rimpianto?
Cerco di non averne.
Work in progress….?
Nuovi viaggi, nuovi libri, nuovi progetti.