Terminata ieri una rappresentazione dedicata a Clara Wieck Schumann (1819 – 1896) al Teatro Litta di Milano. Con l’interpretazione di Guenda Gori.
In quel meraviglioso, intimo e accogliente spazio che è il Litta, lì dove si conserva, giusto nel cuore di Milano, tutta la sua fascinosa tradizione culturale, un grande evento, davvero un piccolo miracolo, si è verificato nelle fredde giornate di questo fine gennaio/inizio febbraio: sul palcoscenico, accanto a un pianoforte gradevolmente scordato come da esigenze di scena, si è ripresentata, viva e frusciante nel suo elegante abito, e in tutta la sua abbagliante bellezza, Madame Schumann, al secolo Clara Wieck, nell’interpretazione dell’attrice e pianista Guenda Gori, su testo di Giuseppe Manfridi e con la regia di Maurizio Sciaparro.
Potete immaginare quali aspettative si siano accese in noi (Artediparte è nata per riflettere sulla questione di genere nell’arte), anche soltanto per l’idea di questo spettacolo: un tentativo d’ibridazione fra concerto e spettacolo di prosa, che fa sperare interessanti innovazioni per gli appassionati di entrambi i generi di spettacolo e costituisce un promettente filone, quanto mai benvenuto se si propone, come fa questo testo, di mettere al centro dell’attenzione del pubblico – che può essere fecondamente coinvolto nel doppio ruolo di pubblico “reale” e “in scena” – ridandole protagonismo, una delle stelle della cultura europea dell’Ottocento. E così, Clara, elegante e radiosa, ha preso la parola, è tornata ad eseguire la musica che amava, e ci ha lasciati pieni di desiderio e di nostalgia.
Interpretare uno dei miti e nello stesso tempo una delle figure centrali del Romanticismo musicale è operazione delicata, che richiede saggezza ed equilibrio. A vaste possibilità, davvero appassionanti, e a molteplici aperture invogliava questa pièce, che richiedeva attenzione e sapienza e doveva rispetto tanto alla parola quanto alla musica, evitando sovrapposizioni troppo capricciose e scelte casuali e ingiustificate di repertorio, che tradiscono l’amore che si deve a entrambe le forme espressive.
La generosità di questa attrice di ammirevole versatilità (non è certo facile, né comune, presentarsi in scena in due diversi e complessi ruoli, come attrice e come musicista), con la sua eleganza, il suo esprit e il suo palpabile entusiasmo, non è riuscita a salvare un testo confuso, pieno di buona volontà, ma poco lucido, con continui, rapsodici e imprevedibili scarti fra la presentazione del personaggio pubblico e quello privato di Clara, fra la donna e l’artista, fra introspezione e rêverie, proprio come fra musica e parola. L’autore ha volenterosamente aperto molte piste, senza davvero perseguirne alcuna con reale efficacia scenica, accennando a tanti eventi storici, a tanti umori e sentimenti, seguendo capricciosamente ora l’uno ora l’altro filo, senza mai dipanare il racconto in modo completo e convincente.
L’inquadramento nel maggio 1856, due mesi prima della morte di Robert Schumann, annunciato sin dalle primissime battute, predispone lo spettatore e la spettatrice avvertito/a al desiderio di penetrare nei sentimenti reali di questa donna, che affronta il momento più nero e disperato della sua vita e, in effetti, si coglie qualche avvisaglia di questi sentimenti, frammista a segnali pesantemente contraddittori: atteggiamenti divistici, assurde civetterie, ripetitive osservazioni da borghesuccia. Occhiolini, gridolini e mezzucci…
Siamo spinte a chiederci se sia stato fatto un serio approfondimento del carattere e delle inclinazioni di Clara Wieck, sulle tante, abbondanti, fonti disponibili e se le sia stato riconosciuto uno spessore culturale, e un vero ruolo: di compositrice, di musicista e intellettuale, capace di influenzare la scena del concertismo europeo della sua epoca, o se piuttosto ci si sia voluti fermare a quegli aspetti, tradizionali e rassicuranti, di moglie, madre e amante che tanto piacevano ai vecchi libri di Storia della musica per le Scuole medie. Confermare pregiudizi e luoghi comuni, anziché dare presenza e vivacità alla nuova interpretazione di un personaggio che, per la prima volta, è solo al centro della scena; tentarne una veste inusitata, invece che la conferma di una personalità già banalmente nota. Una individualità così alta e complessa, così piena di sogni e ideali, di sensibilità e di talenti, che ha vissuto accanto a molte personalità dotate di genio, ma che era geniale lei stessa, deve davvero continuare a risentire in modo tanto insistente di dicerie e pose che poco la riguardano? Ci sono così tante lettere e testimonianze della sua esistenza, che avrebbero potuto essere meglio sfruttate per raccontare Clara Wieck in modo convincente e anche commovente, com’è richiesto in teatro. Ci chiediamo se davvero il pubblico presente, numeroso ed entusiasta, sia andato a casa con qualche conoscenza in più su questa donna straordinaria o non ne abbia piuttosto concluso la solita solfa: musa ispiratrice, moglie, madre di una numerosa nidiata di fili e figlie, e sì, d’accordo, anche pianista virtuosa. Ma il pubblico colto di Milano già conosce questa storia, non è vero? O era piuttosto questo che si cercava: dare ai salotti buoni, di Milano e altrove, la conferma di ciò che conoscono già. No, troppo poco davvero. E non lo crediamo.
Uno spettacolo dedicato a Clara Wieck Schumann, degno di lei, della sua grandezza, è ancora da realizzare, ma siamo grate a questa rappresentazione di aver tentato un esperimento, brillante e appassionante, sebbene sia un frutto ancora immaturo. Lo metteremo nel settore della nostra libreria in cui conserviamo, non ciò che abbiamo già letto e concluso, e consideriamo realizzato, ma fra i libri e gli spartiti che ancora non abbiamo avuto il coraggio, la voglia e la determinazione di leggere. Nel reparto “sogni da realizzare” “cose non ancora compiute”, “aspirazioni” ed “esperimenti da tentare”.
Chissà se anche Clara aveva un ripiano così nella libreria di casa sua…
E voi, ne avete uno?
Potremmo ben considerarlo il più importante e prezioso di tutti. Non siete d’accordo?