Un masso, e su di esso una coppia indigena delle tribù kichwa, l’uomo con una corona di piume, il torso nudo ed un gonnellino di paglia strofina sulle spalle della donna seduta ai suoi piedi, sventolandolo, un mazzo di foglie dal potere depurativo e curativo per anima e corpo, lei indossa un abito tradizionale e un cobra serpeggia a valle dei loro corpi, questa è la raffigurazione del monumento che segnava l’inizio della minuscola cittadina.
Un masso, e su di esso una coppia indigena delle tribù kichwa, l’uomo con una corona di piume, il torso nudo ed un gonnellino di paglia strofina sulle spalle della donna seduta ai suoi piedi, sventolandolo, un mazzo di foglie dal potere depurativo e curativo per anima e corpo, lei indossa un abito tradizionale e un cobra serpeggia a valle dei loro corpi, questa è la raffigurazione del monumento che segnava l’inizio della minuscola cittadina.
Il cielo di Cotundo nell’arco di una giornata muta colore spesso, quando è plumbeo la facciata turchese del santuario de la Virgen del Quinche risplende in contrasto con il grigio consunto delle poche strade che formano la parrocchia, bagnate ad intervalli più o meno lunghi dalle piogge tropicali che si abbattono sulla foresta e sui centri limitrofi. La pioggia è torrenziale, inizia il canto con piccoli vagiti fino ad esplodere in acquazzoni apocalittici, nessuno porta l’ombrello, né le mamme, alcune con i figlioletti in braccio, né i bambini spesso talmente autonomi da non essere accompagnati, continuando la loro risalita verso le comunità d’appartenenza fradici come pulcini. In Ecuador le parrocchie sono distretti urbani o rurali appartenenti ad un cantone, settore più ampio per dimensioni e reti amministrative, Cotundo è una parrocchia inserita nel cantone di Archidona. Mi trovavo in quell’ala del paese denominata Oriente, appellativo che nel mio immaginario conferiva alla zona un alone di mistero, qui varie comunità native organizzate in villaggi famigliari, ayllu termine risalente agli antichi sistemi politico- sociali delle civiltà inca e precolombiane, conducono la propria vita fedeli ad un modello appunto ancestrale che pare non ambire, né invidiare quello delle città più vivaci e caotiche. Non focalizzandosi sulle ristrettezze economiche, coloro che scelgono di perseguire e tutelare le tracce di un passato a rischio di estinzione, si dimostrano fieri delle loro origini e determinati nel preservare reti sociali ed organizzative arcaiche che non si addicono alla frenesia delle città pur mantenendo con queste un canale di comunicazione, almeno per quanto riguarda l’etnia kichwa, mentre spostandosi verso l’est amazzonico ci si può imbattere in gruppi e sottogruppi indigeni che per scelta e soprattutto in difesa del territorio abitato, non ammettono il contatto fisico con soggetti estranei alle comunità, gli Huaorani per esempio.
Arrivai in paese dopo una mezz’oretta, nella piazza principale della parrocchia di Cotundo vi era un piccolo parco divertimenti assediato nelle ore pomeridiane dai ragazzetti in divisa appena usciti da scuola. I visi e i fisici sono ammalianti, atavici seppure con indosso quegli abiti da scolari dei college nord americani, più che indigeni: una polo bianca abbinata con una gonna o con un pantalone blu notte; trapela l’impronta colonizzatrice dovunque, io ho preferito i loro abiti tradizionali che sottolineano una superiorità culturale lontana dal principio di omologazione.
Attorno al parco giochi vicino ad un campo da calcio, centro pulsante della cittadina, pochi negozi sparsi e qualche baracca in legno alternata con precari e radi edifici in cemento per chi se li può permettere. La fatiscenza delle costruzioni abitative e commerciali era però impreziosita da colori vivaci: un primo edificio angolare di un giallo paglierino sbiadito e più spento rispetto alle tonalità delle case vicine, un casolare eretto con assi di legno dipinte di indaco, una casa più bassa dalle facciate bianche con la base verde, e l’ultima color glauco
Da fumatrice accanita, l’unica cosa di cui sentivo la necessità, tra quelle comodità ed abitudini superflue che mancavano in un ambiente lontano da casa, erano appunto le sigarette, non facilmente reperibili nei viottoli di Cotundo. L’unico negozietto ad esserne provvisto era un alimentari ad angolo. I tabaccai non esistono. In tutto il paese si vendono solo in certi alimentari o negozi, piccoli come bugigattoli in cui puoi scegliere tra l’acquisto di sigarette sfuse o del pacchetto completo, ed io ero sempre alla ricerca della confezione da venti. Il costo di queste, variabile, eccetto che in alcuni negozi, mi ha dato da pensare sul sistema fiscale claudicante del paese, e sul controllo precario da parte delle autorità circa il rispetto dei prezzi imposti, qualora ci siano.
“Un cigarillo 50 centavos”, che me ne faccio? pensavo ogni volta, ho persino ceduto innumerevoli volte all’acquisto di sigarette al mentolo. Gli ecuadoregni non sono un popolo di fumatori incalliti come noi italiani, ed era molto più facile trovare sigarette da venti come queste piuttosto che sigarette di tabacco normale, potrebbe darsi per l’uso conviviale e sporadico che ne fanno, la sigaretta al mentolo è più propriamente da compagnia, quella normale da tabagista forsennato. Almeno questo è ciò che ho constatato io nella mia esperienza da fumatrice. Oltre agli alimentari che vendevano insieme alle sigarette, sacchi di riso, snack, biscotti, assorbenti, detersivi, c’era la categoria dei venditori ambulanti, con questi ultimi il prezzo delle mie amate era flessibile in base a simpatia e all’umore del venditore. Dai 3 dollari agli 8, a seconda dell’onestà e della voglia di sbeffeggiare turisti tabagisti come me, che avrebbero fatto di tutto pur di procacciarsi una scorta sufficiente di sigarette.
Nell’area di Cotundo la vita commerciale è abbastanza spenta, motivo che spinge gli stessi abitanti delle comunità e le famiglie a recarsi nel centro di Tena o di Archidona per le spese più importanti, dove trovano mercati coperti e supermercati meglio riforniti. Negli itinerari che conducono dalla comunità ai centri più popolati si assiste a scene pittoresche di mercanti raggruppati stravaccati o seduti elegantemente sui bordi dei marciapiedi con la merce agricola esposta in sacchetti di plastica, per prezzo e qualità conviene fare acquisti da loro. Le donne sono dedite alla vendita di frutta e verdura coltivata negli orti di loro proprietà, riparate dall’ombra propagata dai muri alle loro spalle con i lucidi capelli neri, a volte legati in lunghe trecce o lasciati cadere sciolti, sempre in ordine, data la liscezza. Una guida turistica indigena, operante nella comunità, mi disse che le donne usano un composto naturale, simile all’achiote, ma nero, per rendere i capelli così scuri e lucenti. Di fronte a queste signore statuarie, caschi di platano verde, granadillas, avocados, mele, ananassi, e loro, accucciate o con le gambe distese e incrociate in prossimità delle fermate degli autobus che aspettano l’orda dei passeggeri vomitati dal mezzo. Gli autobus sono rumorosi e rudimentali, a causa dell’alta temperatura i radiatori situati nella fascia antistante, in mezzo ai fanali, sono sempre scoperti perché dell’aria possa evitarne un eccessivo surriscaldamento. Un uomo addetto al controllo dei biglietti si sporge dall’entrata principale per annunciare le fermate e far salire i nuovi viaggiatori, tra cui anche un venditore girovago di ghiaccioli che con il suo bauletto refrigerato, bicromato di azzurro e bianco dispensa ai passeggeri, per allietare la corsa e racimolare degli spiccioli, stecche congelate di ogni colore e gusto esotico.
A Cotundo, oltre il suddetto alimentari, si trovano bar, punti di ristoro per i pasti, negozi d’abbigliamento ed internet point, insieme alle fermate di sosta per i taxi. Delle scritte in nero a mano e sbilenche, indicano i pasti del giorno: caldo de galina, maito de tilapia, porzioni di riso, seco de pollo mentre il giardino lungo il fiume, sul lato della cattedrale inizia a popolarsi di ragazzetti affamati appena usciti da scuola. Sull’angolo della strada, frontalmente al parco divertimenti, una rosticceria pasticceria vendeva caffè in polvere, pane zuccherato con ripieno di formaggio fuso, pretzel, panini al burro, torte soffici al cacao, donuts glassati a prezzi più che modici, ed era, da quel che compresi, una meta consueta per i ragazzi appena liberati dall’impegno scolastico. Finivano i corsi, si incontravano in quella che potremmo definire villetta comunale, consumavano uno snack in rapidità, e tornavano verso le comunità a piedi, in bicicletta o in viaggi condivisi in taxi. Mi è capitato spesso di assistere a carovane variopinte ed intermittenti di taxi o furgoni, carichi di bambinetti seduti persino sul retro insieme alle merci, contenti e schiamazzanti.
La comunità in cui risiedevo è organizzata in casolari lignei con pavimentazione in pietra alcune, altre sostenute su assi di legno cigolanti e malamente congiunte tra loro, lasciando degli spazi longitudinali di vuoto. In ogni casa abita una famiglia, tutti conoscono alla perfezione gli itinerari campestri o sterrati per raggiungere le case degli altri abitanti della comunità.
I membri sono per la maggior parte imparentati tra loro con l’intrusione di conoscenti e amici che hanno preferito staccarsi dalle famiglie ubicate nelle città per accostarsi alla vita comunitaria sulle tracce di un passato, che se non fosse per questi gruppi accaniti e riconoscenti nei confronti dei loro antenati, andrebbe perso e dimenticato.
I kichwa dell’Oriente, sono sparsi nella zona nord-orientale dell’Amazzonia, costretti a migrare nella selva a seguito degli insediamenti spagnoli nell’area di Baeza e Avila, dove vivevano un tempo in serenità e armonia. Qui i conquistadores istituirono le encomiendas, costringendo una moltitudine di indigeni a lavorare per i signori spagnoli sotto forma di una schiavitù bestiale alla cui base risiedeva un’estenuante lavoro fisico e violenza psicologica che li spinse a lasciare le città e a stanziarsi in comunità organizzate e distribuite nella foresta, luogo incontaminato ed ignorato dai dominatori spagnoli per ragioni religiose e logistiche; la foresta era zona protetta da Dio, ma soprattutto difficilmente valicabile e forgiabile a favore delle proprie intenzioni egemoniche e d’interesse agricolo. Una tra le poche spedizioni che riguardò il contatto e l’esplorazione della foresta amazzonica per mano delle truppe reali spagnole, risale al 1561, quando Pizzarro diede l’ordine ad alcuni tra i suoi uomini e militari di inoltrarsi nella giungla alla ricerca della fantomatica Eldorado. Così, a causa di un’arroganza sanguinolenta fondata sull’oppressione e su una politica di estinzione etnica migliaia di indigeni si dispersero nell’Oriente creando un ambiente sicuro e lungi dalla devastazione della macchina spagnola schiavista e missionaria. Nonostante ciò le imposizioni nazionalistiche iberiche fecero in modo che i nativi ne ereditassero il sistema linguistico che pian piano, ma per buona sorte in modo parziale, è andato ad estinguere ed affievolire l’uso, una volta predominante della lingua nativa: il kichwa. È importante dire che i nativi ecuadoregni sono stati oggetto di invasioni e infiltrazioni straniere già prima dell’avvento egemonico spagnolo, difatti nel 1463 l’impero Inca che godeva da tempo di enorme potere e di una solida struttura politico-militare iniziò, con l’imperatore Tupac Yupanqui l’avanzata verso nord per il superamento del confine peruviano e il conseguente raggiungimento dei territori ecuadoregni, dove questi ultimi dopo dignitosi tentativi di resistenza ed opposizione specie per mano dei Canari furono sconfitti e conquistati, sino alla definitiva caduta dell’Impero Inca a causa dell’arrivo delle truppe spagnole comandate da Pizarro nel 1531, per passare così da un primo stato di assoggettamento ad un secondo, non meno violento e disastroso. Questo clima di imposizione e stratificazione culturale ha dato vita ad un métissage in cui tradizioni ecuadoregne, peruviane e spagnole si sono combinate dando come risultato un ibrido culturale che cerca, oggi, nonostante le contaminazioni di ricordare e salvaguardare ciò che è rimasto intatto delle loro credenze, usi e costumi. Il termine stesso kichwa deriva dal quechua peruviano, così come la sua morfologia linguistica evolve sulle basi del sistema linguistico peruviano. L’indistruttibile senso di appartenenza alle origini ha tuttavia potenziato la voglia di tramandare ai più giovani la conoscenza di questo miscuglio linguistico che ha più contatti e riferimenti con una lingua tribale e comunitaria rispetto allo spagnolo. Allo stesso modo, con zelo e caparbietà, anche i componenti della comunità 9 de junio comunicano quotidianamente in kichwa, che nel corso del tempo ha subito ulteriori inflessioni lessicali e grammaticali sul modello dell’idioma spagnolo e delle differenziazioni dialettali e linguistiche delle province, ma che conserva ancora gelosamente una struttura indigena e una sonorità gutturale. Anche i bambini, seppure abituati allo spagnolo e giustamente direzionati verso l’apprendimento dell’inglese, conoscono
perfettamente la lingua natia e sono ugualmente affezionati al suo utilizzo grazie ad un’educazione che erige i propri pilastri sulla tradizione ancestrale. C’è nell’aria una comprensibile paura, come una specie di preveggenza che percepisce gli usi e i costumi kichwa come qualcosa di vulnerabile da proteggere, da riportare a galla, come quando stendi un indumento ad asciugare e questo rischia, per una distrazione, di sprofondare nel vuoto e le mani affannate, preoccupate, insieme ad una palpitazione lievemente accelerata, si apprestano per riacciuffarlo. Gli adulti insistono con dolcezza e spontaneità nel trasmettere ai più giovani questa preziosa eredità storica, che sentono quasi come un dovere rivolto agli avi, ai nonni, ai bisnonni ai trisavoli e agli spiriti che nelle secolari leggende li hanno difesi da malanni, catastrofi ambientali e da cui hanno attinto lezioni di vita impartite spesso attraverso la terra e i suoi elementi, che funge sempre da messaggera: la Pachamama.
La giornata lavorativa nella comunità, che vive perlopiù di un sistema agricolo di sussistenza La giornata lavorativa nella comunità, che vive perlopiù di un sistema agricolo di sussistenza, unito ad un discreta presenza di bestiame d’allevamento comprendente maiali, e polli comprati nelle città che bighellonano tra i vialetti sterrati e sulle chiazze di erba rada, o sgattaiolanti nelle salite che conducono alle abitazioni cosparse di arbusti ad altezza delle ginocchia, inizia con i canti dei galli verso i primi bagliori dell’alba. Il lavoro comunitario si incentra principalmente su un sistema di produzione e consumo che soddisfi esigenze personali, eccetto per quelle spese supplementari che riguardano la preparazione di pasti e delle attività rivolte ai turisti.