di Caterina Della Torre
Eleonora Terrile sembra nata sotto una buona stella. Infatti vede la luce a Genova nel 1963 , nove giorni dopo la partenza per lo spazio della prima donna cosmonauta, Valentina Vladimirovna Tereškova, e due mesi prima del discorso I have a dream di Martin Luther King.
Anno d’oro quello della tua nascita!
Sono successi tanti altri avvenimenti nel 1963, ma mi fa piacere ricordare questi passi importanti per noi donne e per le persone allora definite “nere”.
Fino ai 14 anni ho sognato di diventare un chirurgo come Christian Barnard, così dopo la scuola media mi sono iscritta al Liceo Classico. Sono bastati pochi mesi di ginnasio e la tempesta ormonale vissuta fra la Febbre del sabato sera e gli anni di piombo, per farmi cambiare rotta. Buttati alle ortiche il camice e il bisturi, ho iniziato a immaginarmi come una donna indipendente e con le palle, come usavo dire allora. Non avevo chiara la mia futura professione, ma mi vedevo vivere in una grande città, viaggiare e agire in piena autonomia.
A settembre del 1988 sono arrivata a Milano con una laurea in Lettere Moderne e il desiderio di lavorare in pubblicità come copywriter. 24 anni dopo sto ancora in questa città. Da pochi mesi ho lasciato la casa in cui ho vissuto da sola e ora abito con la mia allegra famiglia allargata a bipedi, quadrupedi e pennuti: il mio compagno, i suoi tre figli, due gatti, due cocorite.
Che lavoro fai adesso?
Lavoro come consulente e docente di comunicazione sociale e di raccolta fondi. E’ possibile trovare più informazioni sul mio sito www.eleonoraterrile.it
Ti piace insegnare ai giovani? Pensi che tra di loro ci siano ‘’punte di diamante’’?
Mi piace trasmettere ai giovani quello che so e confrontarmi con loro. Non sono un’insegnante che sta in cattedra né credo nella validità di questo modello. Ritengo invece fondamentale aggiornarsi, poiché i ragazzi di oggi hanno un accesso all’informazione e alla conoscenza inimmaginabili ai miei tempi. Penso a internet, ai social network, alle conference call con il mondo, ai viaggi in aereo low cost.
Esistono certamente punte di diamante. Quelle che ho potuto vedere sono attratte non tanto dal luccichio di carriere quanto dalla sfida di creare qualcosa di nuovo e fare gli imprenditori di se stessi.
Cosa piace ai giovani maggiormente, l’aspetto sociale, quello maggiormente retribuito, o quello ludico?
Per rispondere devo fare un distinguo.
Se penso agli studenti del Master MICRI/IULM in Relazioni Internazionali e ai giovani che frequentano il corso “Comunicare il sociale” di Terre di Mezzo, rispondo che danno molta importanza all’impatto che la loro professione avrà nella società e rispetto alle fasce più deboli.
Per diversi studenti dell’Istituto Europeo di Design ha peso l’aspetto ludico, la possibilità di divertirsi con il proprio lavoro. L’argomento retribuzione è un tasto dolente per tutti e molti ne sono consapevoli.
Hai scelto di occuparti di comunicazione sociale, perché?
Per 19 anni ho lavorato in agenzie di pubblicità e di direct marketing come copywriter, supervisor e co-direttrice creativa. Dal 1988 al 1996 ho scritto per promuovere prodotti di aziende nazionali e internazionali.
Nel 1997 ho iniziato a lavorare anche per associazioni non profit all’interno dell’agenzia Rapp Collins, che aveva sia in Italia sia all’estero una divisione dedicata e investiva molto nella formazione. Ho avuto la fortuna di imparare da professionisti appassionati ed esperti come Marcello Cividini, fundraiser e data base builder per importanti realtà quali Croce Rossa Italiana, Unesco, UNHCR, Unicef. Mi sono trovata nella situazione ideale per innamorarmi delle associazioni non profit. Il sentimento dura ancora, nonostante sia cambiato nel tempo, cosa che accade in tutte le storie.
Qual è la tua campagna che ti ha maggiormente appassionato?
Una campagna alla quale sono legata è “Fermiamo l’AIDS sul nascere” di Cesvi, progetto inaugurato a Marzo 2001 in Zimbabwe per combattere la trasmissione del virus HIV dalle mamme sieropositive ai figli nascituri.
I motivi di questa scelta sono vari.
Cesvi ci ha messo nelle migliori condizioni per lavorare, invitandoci a Bergamo ad ascoltare l’allora responsabile sanitaria del progetto, la Dottoressa Claudia Gandolfi. Il confronto con chi lavora sul campo è importante e in questo l’associazione non si è mai risparmiata.
La campagna segna il passaggio del testimone da un ragazzino che commosse il mondo e morì di AIDS nel 2001 a un bimbo nato nello stesso anno e salvato da questa malattia. L’uno è Nkosi Johnson, ragazzino sudafricano che nei suoi ultimi mesi di vita prese la parola a Durban, chiedendo ai potenti là riuniti di far curare i malati di AIDS in Africa. L’altro è Takunda, il primo bambino sano nato da una mamma sieropositiva affidatasi alle cure di Cesvi.
Dal punto di vista della comunicazione, la campagna è stata declinata su tutti i media allora esistenti: stampa, TV (spot e telepromozioni), radio, affissione, direct mail, web e, in prima italiana grazie alla lungimiranza di Giangi Milesi, attuale Presidente del Cesvi, sms solidale con Vodafone.
Ho saputo che su questo progetto è stata fatta anche una tesi di laurea. Per quanto mi riguarda, ne ho parlato in alcune lezioni, facendo vedere l’evoluzione di Fermiamo l’AIDS sul nascere nel tempo. A proposito: fra poco compirà 11 anni, come Takunda!
E l’immagine femminile, perché continua ad essere svilita? La società, le donne, o una prassi consolidata?
Vedo uno scollamento fra il mondo reale e la sua rappresentazione.
Non siamo tutte come ci disegnano.
Penso a chi frequenta i miei corsi, alle ragazze e donne con cui faccio volontariato, alle persone con cui ho lavorato o lavoro, alle mie vicine di casa di un tempo e di oggi, alle donne che incontro in metropolitana, in treno e sui tram, alle amiche e conoscenti.
Detto questo, stando ad alcuni programmi televisivi e pubblicità, sembra che noi donne siamo solo il contorno sia di presentatori agè sia di prodotti che nulla hanno a che fare con il nostro corpo svestito e spesso fotograficamente ritoccato e mutilato.
Perché? Perché è una via comoda, che fa comodo anche ad alcune di noi.
Perché l’immaginario collettivo italiano, ancora dominato dalla televisione, negli ultimi 20 anni ha ricevuto poco nutrimento e pochi modelli di riferimento.
Perché alcuni giornalisti, registi, autori televisivi, pubblicitari, fotografi, product manager e dirigenti d’azienda si sono trincerati per decenni dietro il mantra che certi programmi televisivi e pubblicità sono così, perché riflettono la società in cui viviamo e sono quello che la gente vuole.
Tutte scuse.
Cosa si può fare?
Ognuno di noi può fare qualcosa, a cominciare da coloro che lavorano con i media e che sono responsabili della costruzione dell’immaginario collettivo: giornalisti, pubblicitari, fotografi, registi, autori televisivi, dirigenti d’azienda, etc…
Qualcosa si sta muovendo.
Il Comitato Pari o Dispare ha lanciato a Roma nel 2010 e a Milano nel 2011 il manifesto per l’utilizzo responsabile dell’immagine femminile, a cui hanno aderito diverse aziende e multinazionali.
L’anno scorso l’Art Directors Club Italiano ha creato un manifesto deontologico a firma di Massimo Guastini, Annamaria Testa e Pasquale Barbella. Pubblicato su una pagina de Il Sole 24 Ore, il manifesto è stato presentato in varie scuole di comunicazione, compreso l’Istituto Europeo di Design di Milano, a conclusione del workshop mio e di Guia Bellomo Dignitising – Comunicare fa rima, anche, con rispettare.
L’Unione Donne Italiane ha incentivato le buone pratiche attraverso il Premio Immagini Amiche.
L’artista sociale e fotografo Ico Gasparri, che per 20 anni ha fatto una ricerca artistica militante sulle radici della violenza sulle donne nelle affissioni stradali intitolata Chi è il maestro del lupo cattivo?, sta sensibilizzando centinaia di persone sull’argomento e insegnando a decostruire le immagini che ci vengono sbattute in faccia ogni giorno.
Genitori e insegnanti delle scuole primarie e secondarie possono invitare i giovani a porsi criticamente davanti ai mezzi d’informazione e d’intrattenimento. A volte basta una battuta tipo “Non c’è crema più miracolosa del fotoritocco”, per far capire a una ragazzina che la pelle senza pori, rughe, ombre e talvolta ombelico delle modelle è un trucco di Photoshop, non un dono di natura. Tra l’altro, una pelle senza pori ci manderebbe dritte al creatore, non ai concorsi di bellezza.
Si può fare tanto. L’importante è fare tanto, lamentarsi poco.