La sala d’attesa, convoglio di menti in procinto di essere diagnosticate…
Un racconto di Eleonora Vino
La sala d’attesa, convoglio di menti in procinto di essere diagnosticate, mi appariva come un perfetto alter ego del dottor Alfredo Belvedere, collocata quasi sulla soglia dell’ingresso era una camera ampia ed ingannevolmente accogliente, un tepore pronto a svanire una volta entrati in quel perimetro ristretto e dedito a spiare, scrutando, le angosce di noi pazienti. I posti a sedere erano disposti in due file di poche sedie, parallele, così da permettere ai clienti, nei giorni di affollamento, un’acuta analisi dei colleghi posizionati di fronte, non perché questi fossero considerati da me cavie da laboratorio, ma semplicemente sostituivano le riviste depositate su quel nudo tavolino bianco, e ritenevo molto più riempitivo immedesimarmi nei loro disturbi, nelle loro psicosi e depressioni maggiori e non – compito in realtà alquanto ostico – che in inutili letture di cui nulla avrei appreso data la scarsa attenzione . La radiografia istantanea dei propri compagni d’attesa richiede: fantasia, attenzione nel non attribuire a questi le tue medesime patologie e discrezione nell’analisi visiva. La sala avrebbe potuto essere una stanza della casa del dottor Belvedere trapiantata, perfettamente identica allo stato originario, nel suo studio medico. Era un dottore poliedrico, oltre alla psichiatria aveva per passione i fumetti, il cinema e il teatro in prosa, l’unica mancanza per chetare questa fame culturale era il tempo; alle spalle dei pazienti sotto mia osservazione si erigeva infatti una libreria, i cui scaffali erano colmi di manuali di ogni genere, si spaziava dalla letteratura di viaggio (includendo guide turistiche) a quella scientifica, trattati di psichiatria alternati a libri didattici per apprendimenti linguistici. Il dottor Belvedere era un uomo alto, leggermente ricurvo su sé stesso, i capelli brizzolati lasciavano spazio ad una fronte vistosa e larga sotto la quale spuntavano due occhi quasi sempre stanchi e spenti, la parte che più spiccava durante le sedute erano le orecchie, a tratti deformate con lobi oblunghi e carnosi, mi sembrava che ad ogni incontro invecchiasse di un anno e che un capello grigio si aggiungesse al repertorio della sua capigliatura.
L’elemento tangibile, durante quell’insaziabile attesa e che più potevo scindere dall’insieme delle componenti irreali macinate nella mia mente, era il modellino in legno chiaro di un galeone che sostava in alto a destra in cima alla libreria. La piccola costruzione in miniatura mi destava un senso di repulsione, non saprei dire se perché fosse specchio di una realtà nella quale io non riuscivo a marciare, o se per la meticolosa dedizione con la quale l’anonimo appassionato si era consacrato alla piccola opera, in entrambi i casi la sua sagoma, i suoi alberi eretti e perfetti, la prua che si elevava verso il soffitto e che assurgeva ad animo inanimato onnipotente non mi era tollerabile. La segretaria, una donna sulla cinquantina, bassa, sguardo trasognato e iride verde acquoso era una personcina a modo, simpatica, di poche parole e affidabile, pareva che il dottor Belvedere riponesse in lei molta fiducia, ciò che spesso mi domandavo era se la donnina non si sentisse mai indifesa davanti a noi pazienti irrequieti. Il telefono suonava compulsivamente e quel trillo insistente infastidiva e interrompeva il mio flusso di pensieri in piena, come potevo dedicarmi all’analisi psicologica dell’uomo che mi sedeva di fronte? Biagio, lo chiamerò così, era chiaramente nervoso ed agitato, il piede tamburellava freneticamente sul pavimento lucido, pensai fosse affetto da ipocondria e che mentre le mani continuavano a sudargli irrimediabilmente, il suo cervello escogitasse piani risolutivi alle sue malattie inesistenti. Era il mio turno. “Galliani, può entrare” esordì la segretaria, sempre con quell’attitudine materna e apprensiva. Mi alzai come un automa, come se un burattinaio manovrasse le mie mosse, un burattinaio un po’ depresso e debole di braccia dato che, nel sollevarmi, il corpo fece un unico movimento atono e sconfitto, l’immagine che avevo di me in quel momento era quella di un blocco di pietra trasportato da una gru e rilasciato mestamente sul piano di lavoro. Lasciai la sala d’attesa e intrapresi la via tracciata dal lungo corridoio che conduceva allo studio del dottore, a destra, prima di questo, si incontrava la segreteria, una stanza fastidiosamente luminosa, accecante e allo stesso tempo immersa in una penombra tetra, l’unica zona realmente illuminata (eccessivamente) era la scrivania, circondata per il resto da un fascio di luce più fioco e silenzioso. Quel corridoio mi pareva infinito, l’unico sentore di realtà, oltre al galeone, era il rumore dei tacchetti dei miei stivali che rimbombava nella testa con un tac-tac-tac-tac disarmonico e compulsivo. Aprii la porta, il dottore Belvedere era raccolto nella sua sedia, mi sedetti di fronte a lui e prima che il colloquio avesse inizio mi rintanai in un risolino causato dalla marca di un bloc-notes poggiato sulla scrivania: Xanax; non so perché, seppure i farmaci avrebbero dovuto suscitare in me scintille di disgusto e ritrosia, mi provocavano, al contrario, del divertimento sarcastico. “Dottore, con la terapia non va per niente bene, il mio senso di disorientamento e alienazione è tale che non riesco a captare neanche l’efficacia dei farmaci”. Vomitai subito quest’affermazione disperata al medico che nella sua solita posizione, quasi fetale, racchiuso nella sua figura dinoccolata, mi guardò con sguardo sognante e un pizzico di menefreghismo, certamente non dovuto a un disinteresse nei miei confronti, ma ad una saturazione di esperienze altrui che probabilmente avevano creato uno scompenso personale tale da non riconoscersi più in sé stesso. Lo sguardo era assente, l’emotività soffocata ed intorpidita dal sovraccarico di esperienze estranee al suo vissuto che avevano scolpito un enorme callo impermeabile attorno alla struttura della sua anima, mi sentivo persa, come se ad un certo punto i ruoli si fossero invertiti e dovessi accogliere quel suo urlo ignorato che mi diceva “Dov’è il mio tempo? Su chi scarico io, psichiatra professionista, il mio turbinio di pensieri ossessionanti e ossessionati?”. La seduta si trasformò in un dialogo nel quale io dovetti cercare di consolare i suoi vuoti esistenziali, fu in realtà un mero sfogo nel quale il dottor Belvedere approfittò del nostro incontro e della mia presenza per ritagliarsi un angolino del suo mondo attraversando il mio, la mescolanza delle nostre vite non mi turbò, la vidi al contrario come un modo per allontanarmi dai miei sproloqui infantili e turbati. Il perché del mio trovarmi lì, di fronte ad un medico sprovvisto di risposte, era una convinzione martellante che si stava ormai da tempo sostituendo alla mia esistenza: la totale convinzione di essere una demente. Il mio percorso terapeutico aveva compreso diverse fasi, dopo l’esposizione del problema il dottore mi consigliò di sottopormi a dei test che avrebbero constatato la veridicità del dubbio, ero demente o la mia era una mera ubbia distruttiva? I risultati del quoziente intellettivo diedero un valore nella norma, non dico quanto frustrante fu sottopormi a tale tipo di verifica, la scelta nell’eseguirlo aumentò la mia convinzione di essere una stupida. Così espresso potrebbe essere interpretato come un usuale capriccio adolescenziale nato da un’insoddisfazione personale di una giovane donna, che, aspirando a progetti irrealizzabili, non accetta i propri limiti imprecando ed esigendo costose prove per smentire la sua tesi, 400 euro fra test vari, probabilmente buttati nel cesso. Ma la mia sensazione, laddove per sensazione si intende ciò che ci viene trasmesso tramite stimoli interni ed esterni, era una combinazione di queste due componenti: gli stimoli interni erano costituiti dalle difficoltà che provavo nell’esprimermi, nel ragionare logicamente e nell’estrapolare dalla mia testa le parole consone ad un determinato contesto, gli stimoli esterni, il riscontro che avevo di questa difficoltà nella vita di tutti i giorni leggibile nello sguardo degli interlocutori che si aspettavano risposte celeri e attenzione nell’ascolto che mi era impossibile mantenere vigile, una bestia immensa e pesante contrastava e aveva sequestrato come degli ostaggi impauriti ogni mia facoltà cognitiva, ero vittima di quel mostro indicibile che asetticamente e in maniera spropositata, facendone abuso nell’interpellarlo, chiamiamo clinicamente depressione. La parola sensazione, nel suo significato letterale di percezione soggettiva, al dottor Belvedere piaceva molto perché dava man forte alla sua diagnosi nella quale ero stata diagnosticata come paziente affetta da DOC, disturbo ossessivo compulsivo, è che in sostanza la mia demenza e le mie difficoltà erano pura paranoia tramutata dal mio disturbo in dislessia, o afasia, o mutismo cerebrale…che ne so. Corredata alla diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo si accostava lo sviluppo appunto di una forte depressione che, inevitabilmente, abbassava il mio potenziale livello cognitivo e mnemonico. In ogni caso, a poco servì la valutazione del test, poiché la convinzione, munita di armatura continuava perseverante il suo cammino, niente e nessuno sfondava la sua corazza d’acciaio. “Voglio uccidermi, dottore, i pensieri autolesionistici invadono la mia testa, e l’immagine più ricorrente è quella della canna di una pistola che dolcemente sfiora le tempie, il pensiero è talmente vivo che posso percepire il gelo del suo metallo sul cranio”; il dottor Belvedere perfettamente coerente con lo scopo del suo mestiere, deviava il mio pensiero suicida concentrandosi sulla soluzione del problema e cercando un terreno fertile per le sue indicazioni. “Il suicidio non è certamente l’arma risolutiva, dovrai accettare questa condizione mentale, e non rassegnarti, nell’assurdo caso in cui tale ipotesi di deficienza fosse vera, il suicidio è solo il desiderio impellente di cambiare vita, di essere nei panni di qualcun altro, non di morire, vuoi morire nella profonda speranza di rinascere diverso”. Mi fermai a pensare non tanto alla definizione di suicidio, quanto più alla sottile e ingombrante differenza tra accettazione e rassegnazione, il primo, un atteggiamento sereno che instaura un rapporto coniugale e civile tra mente, capacità e qualità personali, il secondo, più amaro ed acre spinge ad un’accettazione rammaricata del sé. “Sa” riprese il dottore, “ la gente mi cerca perché possa risolvere i loro problemi, la mia professionalità deve essere sempre sull’attenti e rispondere al bisogno ora del paziente, ora dell’ausiliare ospedaliero e ora della mia ex moglie”. Non riuscivo a consolarlo, o per lo meno a formulare una risposta degna del suo stato emotivo perché il mio malessere era dato giustappunto da un blocco del linguaggio, era straziante lo stato in cui mi trovavo, captavo le sue emozioni, ma non potevo, verbalmente, esprimergli ciò che mi provocavano e al mio interno questo disordine mentale si trasformava in una depressione invadente e folle, non sorridevo più, l’assenza delle parole si era impadronita della mia vita, delle mie relazioni sociali, delle mie passioni, questo vuoto e la carenza di lessico -che non si limitava alla classica dimenticanza momentanea di una parola- scatenavano in me ira e rassegnazione che, quando ero sola, manifestavo in gesti compulsivi, punitivi e deliranti, reazione che in quella situazione, di fronte al dottor Belvedere, dovetti trattenere. La stanza emanava un rumore sordo, la voce dello psichiatra risuonava come un sottofondo in lontananza, come il canale di una radio che prende ad intermittenza su un tratto autostradale, e sebbene fosse la presenza più reale e consistente mi sembrava, al contrario, l’irrealtà nella sua massima espressione, forse perché non credevo alle sue soluzioni e conclusioni, tutte prettamente positive ed ottimistiche. Non c’era più contatto tra me e lui, e quel sentimento di nausea che poco prima mi aveva provocato la vista del galeone, tornò ad impadronirsi di me, il protagonista di questo scempio visivo, questa volta, fu l’impianto del condizionatore, lo fissavo, immobile e silente, giusto a tratti qualche intonazione sibilante con un’ondata di aria fresca, detestavo anche lui, la causa di quell’odio innato mi era sconosciuta, non c’era apparentemente nessuna traccia di realtà in quell’apparecchio, eppure non lo sopportavo, l’odio non era suscitato dal rumore che emetteva, ma dalla sua presenza statica, forse odiavo più gli oggetti degli uomini proprio per la loro inconsistenza e perché io non riuscivo a servirmene. La seduta per quel giorno terminò e tornai a casa, sempre con quel manto di tristezza e consapevolezza del problema, ero lucidissima ed estraniata allo stesso tempo. Fissai un appuntamento col dottore per due mesi dopo da quell’ultimo incontro. Il viaggio di ritorno fu, seppure sempre ombrato di abulia, paragonabile alla sensazione di leggerezza che si prova non appena usciti da una sala chirurgica dopo un intervento, ma in questo caso un’effimera e infame illusione di benessere, effimera perché talmente breve quasi da essere inesistente, infame perché era una bugia nella bugia. Avevamo parcheggiato la macchina nei pressi dei giardini di piazza Garibaldi, era una serata piovosa e umida, il caldo si mescolava a quel senso di impotenza e di ripugnanza nei confronti di me stessa e metafora di questa sordida sensazione era l’aderenza del sudore sulla mia fronte, mi sentivo sporca, stanca di viaggiare tra i meandri infernali dei miei pensieri. Erano le venti, il cielo, intriso di un torbido grigiore steso su uno sfondo blu notte come una tela di Van Gogh muta, rifletteva la sua imponenza maestosa sui viali di quel segmento stradale che separa il quartiere Murat dal quartiere Libertà; la luce naturale sfumava in un arancio intenso emanato dai fari dei lampioni e il calore di questi, con l’umidità, si dissipava in un commiato. Rientrammo, il dialogo con mia madre era ridotto ormai all’essenziale, non per una mancanza di sentimento ma per un’impossibilità, uno spesso tessuto si era cucito tra me e lo spazio delle mie relazioni. Entrammo in ascensore, ad ogni piano, al di là delle ante scorrevano i blocchi di muro tra i soffitti e i pavimenti degli appartamenti; ogni piano era contraddistinto dal numero corrispondente, un numero marchiato rosso fuoco che mi ricordava i sistemi di numerazione dei detenuti di un campo di concentramento, come se ogni piano rispecchiasse un internato in marcia verso la sua postazione di lavoro forzato: quarto piano, arrivate. Mi spogliai e mi stesi sul divano fumando l’ennesima sigaretta della giornata, oserei dire delle giornate, le giornate che non hanno né inizio né fine, ma si svolgono come un dipanarsi immobile del tempo che solo sente il bisogno di definirsi. La mia vita in quel momento era nei panni di una donna indecisa se farla finita, che presa dalla disperazione avvicina una sedia verso il centro della stanza e languidamente infila il capo nel cappio, solo non sa se far scivolare via quella sedia o no, la mia vita era l’indecisione di quel piede inerme.
Questo dissidio tra informazioni recepite da dottrine mediche che costituivano una realtà oggettiva, teoricamente inconfutabile, e la mia realtà che tramutata in paradosso vivente non si confaceva a nessun canone realistico, ovvero concentrata su tutto ciò che non appartenesse al reale eppure, inevitabilmente, mia unica dimensione oggettiva, mi portava all’acme dell’esasperazione e l’unica uscita d’emergenza sembrava essere l’arte, sotto ogni sua forma, certo un’uscita di emergenza che per quanto mostrasse le sembianze di un giardino edenico, così come l’Eden, anch’essa aveva un che di fittizio, era un rifugio dal mondo reale, e quindi la funzionalità della sua presenza, apparentemente salvifica, era invece racchiusa e delimitata da siepi altissime e squadrate che non consentivano comunque l’accesso all’autenticità. Nonostante pertanto il suo ruolo sembrasse momentaneo e vano, risultava allo stesso tempo rincuorante laddove la sua consistenza, partorita da autori riflessivi ed esistenzialisti si mostrava come uno specchio nel quale proiettare le proprie considerazioni e per non sentirsi, per così dire, soli ed incompresi. A questo proposito decisi, mentre la tristezza si rintanava nelle ore della notte, dove solitamente trovava pronti giacigli, di guardare Persona di Ingmar Bergman; fu il titolo a spingermi ad optare per quel capolavoro cinematografico, un semplice sostantivo che racchiude in sé il caos delle emozioni, delle idee, dei drammi, della singolarità dell’individuo. Liv Ullman, nei panni di un’attrice professionista ed affermata, durante la rappresentazione del mito di Elettra, scoppia in una risata immotivata, gesto dal quale parte un mutismo voluto e ragionato, come un personaggio pirandelliano si fa internare in un centro di igiene mentale sotto le cure di un’infermiera mansueta, affettuosa, fragile ed empatica. Il ricovero della giovane si riduce a pochi giorni, la scansione temporale dell’opera è rapida e il passaggio da una scena all’altra mi lasciò pensare che la sua permanenza fosse durata solo pochi giorni; le sue dimissioni furono sancite dopo un’acuta analisi della direttrice ospedaliera la quale, con un dialogo univoco, che mi fece rabbrividire, esentando la paziente da attribuzioni patologiche, definì la sua condizione, che riassumo stuprando l’eloquente diagnosi evinta nella recitazione: l’attrice, intrappolata da sempre a causa della sua carriera, in un continuo alternarsi di personalità e ruoli differenti si sente menzognera, ma la carriera si allaccia alla vita di tutti i giorni, e questa costruzione dell’io diventa intrinseca nella sua Persona, causando una conseguente scissione tra una visione personale di sé stessa ed una rapportata al giudizio estraneo: come liberarsene? Il suicidio sarebbe vile, meglio allora un infantile mutismo che le permette di non essere nessuno. Mi soffermai sul dialogo in quanto la mia depressione era causata anche da una scissione personale, mi ero persa totalmente e come lei mi stavo inconsciamente rifugiando in una pericolosa abulia per un sentimento simile, non sapevo più chi fossi, e non riuscivo a trascurare la dissonanza che vigeva tra l’idea che sino ad allora avevo maturato di me e quella che probabilmente gli altri mi avevano attribuito, dico probabilmente perché altrettanta personalità non è certo che avesse natura realistica. Mi coricai una volta terminato il film, in quel periodo la notte era assieme costernazione e conforto, il primo cenno di consolazione giungeva con il sonno, l’assopirsi del pensiero era un soffio leggero sul cuore destinato, saltuariamente, a dimenarsi anche nei sogni infedeli. L’ossessione e gli ostacoli linguistico-cognitivi erano talmente intrusivi che ritornavano anche nelle rappresentazioni oniriche, falle verbali si alternavano a scenari assurdi corredati da una punta di surrealismo buñeliano, ricordo vividamente, talmente impressionante, l’affresco di un incubo visionario nel quale dalla superficie adiposa di una mia natica fuoriuscivano come nascituri deformi, straziati, malefici e corrotti, degli insetti difficilmente identificabili, infilzati in una placenta di wurstel, io li guardavo affetta da disgusto e come quando ci si accinge alla spremitura di un brufolo, tentavo, nel sogno, di liberarmi da questo corpo estraneo e repentinamente gli insetti prendevano a volare, ronzanti, erranti ed egocentrici. Attribuii, come per ogni sogno, un valore simbolico a questo scenario, gli insetti erano una paturnia irrisolta, secolare, che come un neonato al nono mese scalciavano freneticamente per essere esorcizzati, ma non possedevo i codici per spalancare quelle finestre e lasciar loro libero sfogo. Mi addormentai in un sonno pacifico, senza impostare alcuna sveglia, il mattino era per me sinonimo di incubo, l’inizio di un’immobilità dell’essere in lotta con un’esplosione di emozioni contrastanti, lentamente messe a tacere dall’effetto silente e narcolettico dei farmaci.
Parallelamente alla mia vita nell’appartamento di via Gorizia 3, nello studio psichiatrico i giorni scorrevano rincorrendo una diversità di esperienze, erano le 21, il dottor Belvedere era ansioso di lasciare lo studio per dedicarsi alla visione di Pomodori verdi fritti alla fermata del treno, un vecchio film del 1991 che stranamente, dopo molto, avrebbero mandato in onda quella sera. Affastellando documenti, cartelle cliniche, e sistemando superficialmente lo scrittoio, prima di abbandonare lo studio, gli capitò tra le mani un libricino, grande quanto un opuscolo, una di quelle collane che ripropone vecchi classici in formati simpatici e tascabili: Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam. La giornata lavorativa era stata faticosa e lo aveva sottoposto, come spesso gli capitava, ad un’indagine su sé stesso, la parola suicidio fluttuava nel suo cervello, nelle sedute e tra le mura di quella stanza troppo frequentemente; quella sera il dottor Belvedere era realmente saturo, un senso di disgusto e di disapprovazione nei confronti della vita lo ingurgitò in una voragine interminabile, aprì l’opera dello scrittore olandese e decise che avrebbe passato la notte nello studio, immergendosi in un’atmosfera cupa e solitaria, abbassò con un colpo secco le persiane sino a metà finestra, accese il lume sulla scrivania e spense la luce principale, quindi si accomodò. Una volta sedutosi avvicinò la base della lampada a sé e inclinò il braccio superiore della piantana regolabile verso la prima pagina del libro, certamente non fu una scelta saggia quella di dedicarsi a una lettura sulla follia, data l’assiduità con la quale questo tema faceva parte della sua vita, ma era ormai una dipendenza, e ciò che lo aveva portato a sfogliare la prima pagina era il bisogno compulsivo di ascoltare l’ennesimo paziente, questa volta cartaceo, e l’incapacità che aveva sviluppato con gli anni di dedicarsi a sé stesso. Iniziò una lettura fluente ed ossessiva, e sebbene l’opera fosse del 1511 e imbastisse il monologo della Follia la cui natura più che patologica era fisiologica, contrapposta alla saggezza becera dei retorici, Belvedere depositò le sue conoscenze scientifiche e si lasciò trasportare dall’elogio protestante che assurgeva la pazzia a salvezza e ad elemento indispensabile e costituente di ogni scelta e piacere della vita. La follia descritta da Erasmo non conosce limiti, non si abbandona alla cultura e alla sete di conoscenza, ma tramutandosi quasi in una sorta di stoltezza riesce a godere di ciò che i comuni mortali non sono in grado di percepire. Altra caratteristica fondante è la sua incapacità nel mostrarsi diversa da ciò che è, la follia non ha peli sulla lingua, veste di sincerità e sfacciataggine, qualità che la rendono incomprensibile agli occhi della normalità. Chi appare però più dissennato: un uomo, seppure squilibrato, che dice sempre ciò che pensa, a prescindere dalla natura delle sue affermazioni, o un uomo, costruito, imbellettato, che segue una realtà ai suoi occhi autentica ma poi solo graduale processo di creazione di un’immagine di sé fittizia da far aderire perfettamente al proprio originale, e naturale, temperamento? Io direi la seconda ipotesi contro la quale, probabilmente, si era battuta Liv Ullman quattro secoli dopo. Belvedere continuava la sua lettura, rincuorante e allo stesso tempo tesoriera di una verità pungente, verità che in quel momento sarebbe stata da prendere con le pinze, data anche l’ironia con il quale Erasmo affronta l’argomento e il periodo in cui aveva scritto l’opera, ma il dottore, accecato da una strana euforia, delirante, che viaggiava nell’ossimoro dell’ottimismo e della devastazione, pensò alle contraddizioni del suo mestiere, provò un’ingenua invidia nei confronti dei suoi pazienti perché desiderava, per una volta, avere un problema che gli riguardasse, e che questo fosse al centro dell’attenzione, si fosse anche trattato della patologia più grave di un reparto di psichiatria. Voleva essere un folle, voleva essere autentico, improvvisamente un sorriso illuminante, come gli fosse balenata un’idea geniale, si disegnò sul volto, due parentesi allungate gli bordavano le estremità delle labbra, gli occhi leggermente spalancati si erano coperti di una patina luccicante, chiuse il libro, lo poggiò con fermezza e un tocco di violenza sulla scrivania, spense la luce, fremeva dalla brama di brancolare e dimenarsi nel buio di quelle stanze, un senso di smarrimento gli attanagliò le tempie, sentiva nella testa una morsa stretta che gli comprimeva il cervello e scoprì con turbamento di non essere mai stato sé stesso, era lui, psichiatra, il più scompensato di tutti. Si diresse nevroticamente verso il corridoio e giunto alla fine del lungo rettilineo, in corrispondenza di una delle varie librerie che personalizzavano lo studio, scaraventò, con un unico colpo orizzontale tutti i fumetti erotici di Mino Manara, lasciando orfani di passione quegli scaffali impolverati. Entrò nella sala d’attesa, accese la luce, uno sguardo di ira incontrollabile si fiondò sul galeone ligneo, spostò la sedia dietro la scrivania sotto quella libreria anonima, vi salì, e questa volta non pensò di distruggere la costruzione con un gesto secco e deciso, voleva essere artefice e allo stesso tempo spettatore attento della sua distruzione, lo afferrò con entrambe le mani, fece un salto poco agile per scendere dalla sedia, e ripresentatosi quel ghigno sul volto scaraventò l’oggetto a terra con impeto rabbioso, non soddisfatto del risultato ottenuto si piegò e cominciò a scomporre energicamente quei pochi pezzi rimasti intatti e uniti tra loro; completata l’opera, spense la luce e tornò nello studio, riavvolse verso l’alto la persiana e aprì la finestra.
Era un’afosa sera d’estate, i panni stesi sui fili di plastica ossidata dei balconi antistanti ondeggiavano altalenanti compiendo acrobazie nel vuoto, un tonfo riecheggiò nel nulla delle cose, delle strade, dei lampioni, dei cartelli stradali, dei cassonetti dell’immondizia, un tonfo che non accolse pubblico, ma solo la morte di un pazzo suicida che aveva tentato di curare la follia.
Autrice – Eleonora Vino nasce a Bari il 23 aprile 1993, ma si trasferisce non appena compiuti i diciott’anni nella metropoli milanese per frequentare l’Università degli studi di Milano iscrivendosi all’indirizzo di lingue e letterature straniere. Approfondisce nel contesto universitario lo studio delle lingue spagnola e francese con le rispettive letterature. È amante dei viaggi, della storia dei popoli, e di molte discipline artistiche, prima fra tutte la fotografia di cui affinerà le conoscenze partecipando ad un corso base e sperimentando da autodidatta con una reflex. Ama inoltre la letteratura ed è appassionata di scrittura poetica e narrativa, ha partecipato ad alcuni premi letterari vedendo pubblicata una sua poesia nell’antologia “tra un fiore colto e l’altro donato” pubblicata in occasione dell’omonimo concorso edito dalla casa editrice Aletti. Ha lavorato come guida turistica nel centro di Bari e di Milano e attualmente aspetta di poter proseguire gli studi universitari per specializzarsi in Lingue per la comunicazione e cooperazione internazionale. È affascinata e interessata all’ambito sociale, desiderando un giorno di poter collaborare con enti e realtà che si occupino di servizi alle fasce più deboli della società, specie in argome