di Cinzia Ficco
“Mamme e papà: basta far gli alieni con i propri figli. Fateli sentire partecipi dei vostri progetti e dei vostri sogni. Avvolgeteli col vostro amore”.
Il consiglio “caldo” arriva da Marida Lombrado Pijola, scrittrice, giornalista, nata a Bari nel ‘56, autrice del best-seller ” Ho dodici anni, faccio la cubista, mi chiamano Principessa – Storie di bulli, lolite e altri bimbi”, (Bompiani, 2007), libro choc che ha rivelato il mondo segreto dei preadolescenti.
Oggi Lombardo Pijola scrive sul Messaggero, dove lavora come inviato speciale. Si è occupata di mafia, giustizia, politica, ma anche di società e costume. Molto attenta ai problemi dell’infanzia e dell’adolescenza, sta preparando un nuovo libro, che uscirà a settembre prossimo. Si tratta di un romanzo per Bompiani che continuerà a raccontare la metamorforsi dei preadolescenti, come il precedente, ma questa volta attraverso lo sguardo incrociato di una madre e di un figlio.
L’abbiamo intervistata.
Negli Stati Uniti lo chiamano “overparenting”, in Italia “eccesso di attenzione” nei confronti dei nostri figli. Ma è proprio vero che da noi, come lamentano molti psichiatri, la pressione “accademica” comincia fin dall’asilo?
Un “eccesso di attenzione” mi sembra un paradosso: l’attenzione nei confronti dei figli può essere poca, mai troppa. Direi che manca, invece, un’attenzione più competente, più rispettosa delle loro esigenze formative, della loro interiorità, dei loro tempi, dei loro spazi, della loro età. Credo che si tenda invece, (travolti dalla mancanza di tempo, dai sensi di colpa, dall’impreparazione, dal conformismo), sia a dare, che a pretendere troppo. Si assecondano le loro rivendicazioni consumistiche o di libertà, per debolezza, per superficialità, senza rendersi conto di come, così facendo, si indebolisce la loro personalità. Al tempo stesso, si rovescia su di loro un’onda di aspettative che tagliano i tempi preziosi del gioco, della leggerezza, della noia creativa, e incoraggiano in loro insicurezze, fragilità, timori di non essere all’altezza delle sfide che li aspettano. L’ infanzia è sempre più contaminata dall’ossessione del successo a tutti i costi, in termini di visibilità, denaro, capacità di consumo. E’ fuorviata dalla tendenza a considerare il tempo come una risorsa sulla quale investire per diventare “qualcuno”, (computer, sport, danza, inglese, ora anche cinese e arabo), piuttosto che come un’opportunità per crescere, imparando ad ascoltarsi, a scegliere, a riflettere, a non omologarsi, a entrare in contatto con se stessi.
Sono preferibili forse i metodi “vecchi”, quelli che ti insegnavano a convivere con la “noia”? Ma come far diventare pronti al futuro i nostri figli?
Attraverso l’educazione alle emozioni, alle passioni, ai valori, alle regole, alla fatica. Una struttura interiore ben salda dal punto di vista affettivo, coltivata attraverso la tenerezza, l’accoglienza, l’attenzione, il dialogo, l’ascolto, il rispetto, i buon esempi, ma anche una buona pressione normativa quando occorre, è come un motore potentissimo, che permette di affrontare i percorsi della vita al massimo, sostenuti da idee chiare sulle priorità, da un buon equilibrio, da un temperamento forte, razionale ed empatico, dall’autodisciplina, dalla capacità di sviluppare e di esercitare al meglio i propri talenti.
Un filosofo francese, Luc Ferry, nel suo “Famiglie, vi amo!” (Garzanti) ha scritto che oggi in Occidente il legame famigliare , fondato sull’amore e la sacralità della persona , è più profondo. Le avanguardie del ventesimo secolo e la cultura del ’68 hanno frantumato idoli e permesso la globalizzazione, la quale starebbe favorendo un ritorno, appunto, all’intimità. E’ vero?
Farebbero ritenere il contrario la crisi epocale dei matrimoni, dei rapporti di coppia, della famiglia, oltre alla distanza sempre più profonda e all’incomunicabilità tra genitori e figli, e alla deriva degradante nelle abitudini dei bambini e dei ragazzi. Io penso che dipende da cosa si intenda per globalizzazione, e dal sistema di relazioni sul quale è costruita una famiglia. Da quanto queste siano o meno liquide, oppure strutturate. La globalizzazione può essere una fonte di dispersione, oppure di nuove opportunità. Prendiamo Internet. L’abuso o l’uso scorretto e precoce della navigazione in Rete, da parte dei ragazzi, ha incoraggiato in loro una specie di autismo familiare, e non ha certamente favorito né il dialogo, né l’intimità. Se invece i genitori sono attenti, aperti, consapevoli, aggiornati, Internet può fornire un’occasione di dialogo, di confronto, di condivisione. Molti figli e genitori hanno trovato su Facebook, per esempio, un’opportunità di contatto in più. Sembra un paradosso, comunicare sulla Rete, ma non lo è. Ogni confronto è prezioso, in qualunque forma.
E quindi?
Penso sia importante imparare i loro nuovi linguaggi, e saperli usare. Quello che fa la differenza, tra le vecchie strutture familiari e quelle attuali, è la capacità di non farsi trovare impreparati, di attutire le interferenze, e volgere a proprio vantaggio. E’ importantissimo scambiarsi le prospettive, crescere e imparare assieme, coscienti della velocità sempre più vertiginosa delle rivoluzioni sociali e comunicative, capaci di esercitare la fantasia, di abbattere i pregiudizi, e costruire così nuove forme di intimità.
L’abolizione di ogni tipo di autorità, persino di quella dei genitori, responsabilizza o getta nell’ansia i giovani?
L’assenza di contenimento, per i ragazzi, è certamente fonte di insicurezze, di ansie, di nevrosi, di risentimenti inconsapevoli, che poi si manifestano in modo trasversale. Però francamente non credo nell’efficacia dell’autorità genitoriale, se non accompagnata da grandi quote di affettività, carisma, credibilità, autorevolezza. I ragazzi, indubbiamente, hanno bisogno di recuperare il senso del limite, il valore delle regole e della disciplina, ma soprattutto hanno bisogno di accoglienza, di sentirsi importanti nella vita dei propri genitori, e di avere degli esempi forti, seduttivi, ai quali ispirarsi. Un genitore che mette in atto interventi repressivi contro i propri figli al di fuori di questo schema viene vissuto come un alieno che attenta arbitrariamente alla qualità della loro vita, e li allontana. Credo che gli strumenti migliori per esercitare la formazione e il controllo, da parte dei genitori, riguardino la capacità di suscitare nei figli la voglia di imitarli nelle passioni, nei valori, nelle regole di vita. E di non deluderli.
Quali gli effetti di famiglie allargate e di “nuovi padri?
La fine di un matrimonio non è sicuramente una buona esperienza, per i figli. Ma si tratta ormai, dato il numero altissimo e in crescita costante dei divorzi, di una realtà da metabolizzare, direi quasi di una mutazione sociale, da regolare con nuove consuetudini e nuovi atteggiamenti. Le famiglie allargate e le nuove figure genitoriali possono essere un’occasione di arricchimento, di apertura mentale, di circolazione di affettività ed esperienze, se vissute al di fuori di quella conflittualità e di quei pregiudizi che ancora segnano le esperienze di separazione e di divorzio. Permane la tendenza a usare i figli per veicolare la propria ostilità o il proprio desiderio di vendetta nei confronti dell’ex. Questa è una debolezza che produce danni gravi sulla serenità e sull’equilibro dei figli, che dovrebbero invece essere incoraggiati a vivere serenamente la nuova situazione, ad accogliere e a lasciarsi accogliere dalle nuove figure di riferimento familiare.
Miguel Benasayag e Gerard Schmit ne “L’epoca delle passioni tristi (Feltrinelli) hanno scritto che i giovani non riescono più a sperare, pensare al futuro con atteggiamento curioso, di desiderio e quindi a mettersi in relazione con gli altri. “La nostra società dicono- – non fa l’apologia del desiderio, fa piuttosto l’apologia delle voglie, che sono un’ombra impoverita del desiderio, al massimo sono desideri formattati e normalizzati”.
Sono d’accordissimo. Desideri poveri, leggeri, futili, incongrui. Desideri-oggetto, piuttosto che desideri-progetto. Le progettualità sulle strategie di vita è contaminata dall’ansia e dalla dittatura del consumo. Consumismo smodato, compulsivo. Sballo di acquisti, di tecnologie, di sesso, di cibo, di musica, di droga, di alcol, per non farsi inghiottire dal vuoto, per esorcizzare l’apatia interiore, la noia, la paura del futuro. Il futuro è qui e ora. Vivere di istanti. Nessuna passione. Nessun sogno. Nessuna capacità di proiettarsi oltre la soglia di un fine settimana. E’ una condizione esistenziale drammatica, frutto di un fallimento educativo epocale, che Galimberti ha ritratto magistralmente nel suo libro: “L’ospite inquietante. Il nihilismo e i giovani. Spero l’abbiano letto tutti i genitori e tutti gli insegnanti.
Quanto incide la scuola in questo discorso? E soprattutto, quanto incidono quegli insegnanti che hanno difficoltà ad assumere una posizione di autorità, dove per autorità si intende anche la capacità di diventare fonte di trasmissione di un sapere?
Se dovessi rappresentare con una metafora gli insegnanti, li raffigurerei come soldati suonati, demotivati, in ritirata, soverchiati dal proprio fallimento. Hanno colto la metamorfosi prima di tutti, ma questa li ha trovati disarmati e impotenti. Salari incongrui, scuola allo sfascio e restia ad aggiornarsi, ruolo sociale svalutato, genitori assenti, ostili, diffidenti, pronti a spalleggiare i propri figli, e infine il colpo di grazia della riforma Gelmini. Li vedo delegittimati, armati di quella ben povera cosa che è il cinque in condotta, e sempre più incapaci di rivendicare un ruolo autorevole nella formazione umana e culturale dei futuri cittadini. Sconfitti, direi, anche dalla perdita di senso e di valore della cultura nella società dei reality show, dove non contano il talento, la preparazione, né i saperi, quanto, piuttosto, la spregiudicatezza, la trasgressione, l’esibizionismo. I nuovi conformismi.
Un fenomeno diffuso in Giappone è quello dell’isolamento di molti ragazzi che per giorni rimangono chiusi nelle loro camere allacciati al mondo solo da Internet. E In Italia?
In Giappone la generazione “hikikomori è diventata da tempo un’emergenza. “Hikikomori vuol dire isolamento. Vuol dire dipendenza ossessiva da uno schermo, fino alla perdita della capacità di interagire col mondo reale,fino allo smarrimento dell’autocontrollo e del senso della realtà. La generazione “hikikomori è qui da tempo. I nostri bambini e i nostri ragazzi sono sempre più precocemente, perennemente, ossessivamente, compulsivamente connessi, e dipendenti da un kit tecnologico. Sempre più soli, nello sballo informatico, e negli effetti secondari che produce. E più sempre più indifesi. Cominciano a connettersi dall’età di sette anni. A dodici sono già quasi completamente intrappolati. Sono molto più competenti dei loro genitori, multitasking, capaci di azionare simultaneamente più dispositivi, il pc, l’i-pod, il cellulare e la tivvù. Sono bambini meccanici, misurano la propria infanzia in Pixel, in Giga, in tacche di cellulare e frequenze tivvù, piuttosto che in sogni e progetti. Ma nessuno li accompagna nella navigazione. Questa dipendenza ha trasformato quella grande risorsa che è la Rete in un formidabile untore, strumento privilegiato di amplificazione e diffusione e velocizzazione dei nuovi riti. Ha introdotto tra soggetti non sufficientemente maturi per gestirla la variabile dell’interazione con lo schermo. La possibilità di scambiare, di entrare in contatto, di produrre immagini. L’effetto è stato dirompente.
Solo un’altra curiosità: questa volta un po’ più personale. Sulla sua città. Le manca?
Non vivo più lì da 26 anni, anche se torno spesso a visitare i miei famigliari. Quando l’ho lasciata, mi sembrava una città un assonnata, ripiegata su se stessa, impregnata da risorse e da vitalità sommerse che non riuscivano a salire in superficie. La Bari degli anni Settanta, dopo le dieci di sera, era una città buia, vuota, silenziosa, con quella meravigliosa città antica che teneva a distanza da se stessa come un corpo estraneo. Oggi stento a riconoscerla. La movida, le taverne, i cinema, Bari vecchia che è diventata il cuore cittadino…Oggi Bari è una grande metropoli del Mediterraneo, una Barcellona italiana , che ha liberato e sviluppato a pieno tutte le sue potenzialità, che ha rivalutato se stessa, la sua storia, la sua voglia di vita, di cultura, di confronto, di condivisione.