Affrontare in poche pagine autrici importanti come Colette, Marguerite Duras e Annie Ernaux non è certo facile. Fosse solo per questo, dovremmo ringraziare Sara Durantini, che ha loro dedicato un volume agile e prezioso (L’evento della scrittura, 13Lab Editore, euro 12,00).
Il tempo in cui siamo immersi, distratto più che veloce, è ormai incapace di metabolizzare opere ponderose; l’opera di Durantini mostra un tratto “ungarettiano” nello sforzo di concentrarsi sulla parola nuda, rotonda, multiforme, fin dal titolo, quell’evento che rimanda a una nascita, o più probabilmente a una creazione. Addentrandoci nella lettura riscopriamo l’autorevolezza d’un vocabolo come “scrittrice”, che assume la definitività del corrispettivo maschile.
La prolifica, erratica bibliografia di Colette, così squisitamente femminea, parigina, apparentemente inchiodata a un’epoca o a un angolo dell’anima, emerge monumentale e assoluta. Soprattutto perché Durantini non si perde nel labirinto d’una produzione fluviale ma incostante e analizza alcune opere fondamentali, a partire naturalmente da Sido, indimenticabile ritratto di madre. Di ogni madre. Esplicitamente irraggiungibile per Gabrielle-Sidonie, meno traumaticamente, forse, per il resto dell’umanità, ma pur sempre distacco, drammatico e senza ritorno. In fondo, la bulimia sfavillante di Colette, l’alternarsi d’eccessi e pause introspettive fuso in una natura magmatica da dea pagana, è una nostalgia, che muovendo dalla sua esperienza così esclusiva abbraccia l’universo. Siamo grate a Durantini per questa riscoperta d’una Colette matura, ancora in gran parte ignota al pubblico italiano. Le siamo grate per le pagine dedicate non alle Claudine ma a Sido, alla natura, alla Borgogna, ai fanali blu e al ritiro sentimentale.
Anche, alla spontaneità selvaggia che dietro gl’innumerevoli e scandalosi amori cercava solo l’affermazione d’una bimba irrisolta. Un itinerario di consapevolezza, quasi un romanzo di formazione che Durantini vede proseguire, con accenti diversi ma non dicotomici, nell’opera di Marguerite Duras: dalla parola rigogliosa di Gabrielle-Sidonie a quella lancinante, impietosa di Duras il salto è breve… o lunghissimo.
La giovane saggista tiene a sottolineare che la scrittura, per Duras, non è sublimazione né conforto: e neppure elevazione. Diventa anzi il luogo del dolore (altro richiamo al “disperato” e impetuoso libro di Ungaretti), sorta di zibaldone di racconti e incomunicabilità. La scrittura pesa, ed è ineffabile. Durantini lo evidenzia nei rapporti incestuosi di Duras e Colette (la seconda più simile a una Fedra rispetto alla “matriarca” Duras e il vicino/imprendibile Yann Andréa) poiché l’incesto è il massimo dell’indicibile, della potenza devastante dell’amore – “forte come la morte”, declama il Cantico dei Cantici. E non si può nominare, come JHWH, o il satana, l’avversario.
In un certo senso si spiega anche la mancanza di nome della protagonista nella sua opera più conosciuta, L’Amante, con tutto il carico di esotismo asincrono trasposto cinematograficamente in India Song. Sempre con qualche scabrosità, dalla penna che immaginiamo ghermita a mo’ d’artiglio, come la stessa Durantini pare suggerire: “La scrittura nasce dalle mani. Sono le mani che afferrano, fissano, prendono, scrivono e riscrivono. Duras riesce a portare avanti il gesto dello scrittore inaugurato da Colette: ‘Nessuno scrive come me. Nessun uomo’”.
E, se qualcosa Annie Ernaux ha attinto dall’opera di Duras, è il frammento irrinunciabile, il non volersi collocare in un genere definito; che non è fluidità ma multiformità, o meglio, “tracce geologiche femminili”. E si deve a lei, a uno dei suoi romanzi tradotti in Italia, L’evento appunto (L’événement, 2000), il titolo scelto da Durantini per il suo saggio. Di noi, insinua Ernaux, non resteranno che tracce, accenni e preludi, abbozzi, dubbi come uniche certezze di vita. Almeno, si spera. La forma-romanzo, legata a schemi ottocenteschi, si è via via sfarinata, a testimoniare l’allontanamento dal centro; qui il centro si è dissolto, e ad Ernaux non resta che la “scrittura piatta”, estremo passo verso un linguaggio – ci si passi il neologismo – “sromanzato”, tentativo di ricostruzione d’una lingua originaria, pre-babelica, pre-civile, che oggi possiamo recuperare solo attraverso la poetica delle cose; inermi, unidimensionali eppure piene. Uniche tracce per recuperare uno spiraglio d’innocenza.