di Daniela Tuscano
È qui che si muore. Non solo in Congo o in India. Senza un grido, inghiottite nell’ombra. Luana, con quel suo nome esotico, un po’ da rotocalco, voleva provare ancora qualcosa. La notorietà, il cinema. A 22 anni non smetti d’essere adolescente.
E soprattutto hai te stessa, le fantasie, le grandezze. O le altitudini. Solo l’immaginazione ci rende totalmente umani.
Luana era già mamma, la pienezza l’aveva raggiunta, amata. Forse, a volte, le sfuggiva di mano. Anche Paola Clemente sorrideva. Essa pure una madre ammazzata di
lavoro. Appuntava scrupolosamente sul diario i giorni che le mancavano, che le resistevano, che poteva farcela, perché la vita era altro, e oltre; e la meritava.
Come mastro Misciu nella novella “Rosso Malpelo” del Verga: “Questo è per il pane! Questo per il vino! Questo per la gonna della Nunziata!…”.
Gli operai della Thyssen Krupp, periti nel rogo della fabbrica nel lontano 2007, condividevano la stessa immaginazione, identici sogni. Li ha triturati un incubo ottocentesco, in un angolo di mondo che si vuole civile ma ha dimenticato le sue Coketown, il padronato, lo sfruttamento.
Luana è morta qui, senza un grido, nella devastata primavera del 2021. Si piange adesso, la si scopre ora, per breve tempo, come un lampo che acceca ma non illumina.
Poi tutto sarà, nuovamente, silenzio.
Luana D’Orazio, morta sul lavoro nell’orditoio di Montemurlo: nella stanza della 22enne- Corriere.it