Non conosco l’ #urdu , lingua parlata in #Pakistan . Ma so che, in arabo, non esiste il verbo essere . Non si dice: “sono insegnante, sono muratore, sono donna” ma “io insegnante, io muratore, io donna”. L’essenza sta nel pronome, racchiusa e quasi nascosta, o implicita, in sillabe rade e potentissime. Io, e basta. E questa è una delle tante contraddizioni d’una società imperniata su un collettivo noi, dove il singolo pare affogato, incomprensibile.
Ignoro, ripeto, sia così anche per l’urdu. Saman, ad ogni modo, non aveva dubbi. Voleva essere. All’occidentale? Ma Saman non intendeva scimmiottare nessuno. Saman “era” occidentale. Prima ancora, però, Saman era Saman e non apparteneva a nessuno. Verbo incarnato che urlava il suo diritto, al punto da cambiare il nome – ma in Layla, non Silvia o Roberta -. Voleva lavorare, sposare un ragazzo diverso da quello destinatole dalla famiglia. Famiglia che aveva denunciato ripetutamente, vanamente. Il suo disperato Io contro il patriarcale Noi.
Saman-Layla, come #hinasaleem , come #sanacheema , era troppo, un corpo imprevisto. Andava perciò cancellato. Chi l’aveva fatta a pezzi è stato sorpreso così, armato di zappe e vanghe, nel retro del giardino dove stava già scavando una fossa. L’omertà del dominio che le avrebbe negato anche una lacrima furtiva.
Non troveremo, forse, quel corpo. Ma l’Io di Saman-Layla risorge ora in tutte le donne oppresse, affossate, reificate, e diviene coro. Perché ognuna conosce, nella sua ancestrale memoria, il grido di quell’Io sepolto.
© Daniela Tuscano
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