Signori di altri tempi ed un guizzo di nostalgia.
di Fracesca Palumbo
Seduti al bar, io e un signore ben vestito questa mattina ci siamo sfiorati più volte con lo sguardo.
Sono miope e il distanziamento non mi aiuta a mettere a fuoco i particolari, così ho inforcato gli occhiali, forte del fatto che almeno questa volta non si sarebbero appannati visto che, se bevo, sono autorizzata a tener via la mascherina. Ho guardato le sue mani azzurrine e leopardate, come quelle di tutti gli anziani sulla cui pelle sottile il tempo compie il proprio esercizio profondo, di macchie scure e vene allo scoperto. Mi sono soffermata sulle unghie spesse e ben limate, sull’impercettibile ma costante tremolio delle sue dita sghembe e poi sul gesto lento del portare il tovagliolino di carta verso i baffi bianchi. Quanto mi hanno ricordato mio padre quei baffi, alla Clarke Gable diceva, li voglio sottili come i suoi, intimava al suo barbiere, e lo rivedo all’improvviso davanti ai miei occhi mentre mi sorride complice, ma in realtà è l’anziano signore del tavolo di fronte che mi sta sorridendo adesso e prendo- come spesso mi capita- questa coincidenza somiglianza, come un segno, come un saluto che arriva da qualche dove, muto e misterioso.
Noto che intanto ha ordinato un bicchierino di sambuca, ora lo ha sorseggia piano, con movimenti accurati e lenti, al cospetto del meraviglioso sole novembrino sottile e dolce, che accarezza la mia mente e la sua, questa mattina.
Quante storie possiamo costruire osservando una persona. Vedovo mi son detta, non ancora abbastanza in difficoltà da necessitare di una badante. Eroico, ho aggiunto. Determinato a uscire di casa nonostante la folle transumanza virologica che ci perseguita. Accade così infatti: senza che lo si cerchi, il tempo a volte ti si dà, e se una volta passava troppo in fretta adesso per questo signore forse non passa mai. Scherza il tempo, si diverte tanto con noi poveri mortali. ‘Mi scusi, sa dirmi che ora è per cortesia? ‘ mi chiede d’un tratto tutto spavaldo. Uomini d’altri tempi, proprio come mio padre, quel fare elegante, quell’impostazione sintattica che fa delle generazioni la cifra identitaria. Orario, tempo, misura, numeri. Allora si diventa due in questa solitudine, io e te, seduti distanti, ognuno al proprio tavolino, io col mio caffè, tu con la sambuca. Ed è come se quel buon profumo di anice all’improvviso si espandesse per raggiungere le mie narici come una corrente, come un fumo invisibile, di quelli che si vedevano solo nei cartoni animati quando eravamo bambini. E il mio cervello si sposta meccanicamente su una diversa quadratura, se sento l’odore sto bene, se percepisco il gusto sto bene. Mi decido a bere il mio caffè. Rido dei miei discorsi interni, surreali! Siamo diventati questo: circospezione, timore, paura. Schiavi del virus.
‘Sono le 10’ rispondo risoluta’ faccio una lunga pausa, vorrei aggiungere altro, qualcosa che somigli a un abbraccio, a un apprezzamento, alla sensazione di esserci e sentirsi visto. Vorrei dirgli sono le 10 bel signore ed io la vedo e la apprezzo, per come si è vestito bene stamattina, per come si è rasato e profumato, soltanto per fare un salto al bar di sotto. È in tutto questo la forza, è in questo la vita che resiste, che testarda si inchioda, non cede il passo, resta salda. Per me è tardissimo, devo scappare, ma vorrei restare ancora, sento fortemente di dover restituire un cenno di gratitudine per un incontro che ha risvegliato in me una grandiosa tenerezza, e nostalgia.
Mi accosto brevemente al suo tavolino andando via, faccio un cenno di saluto con la testa, accompagnato da un piccolo sorriso. Abbiamo così tanto bisogno di sorrisi in questo momento, dovremmo elargirne in quantità quando è possibile, non può che fare bene. In assenza di prove, ho sempre immaginato così l’eterno: come un cuscino di sorrisi su cui appoggiare il capo quando si è ormai troppo stanchi.
“Sa, aggiungo, ha una bellissima cravatta!” e per un attimo mi sento davvero ridicola. Eppure lui si alza, e lo fa piano, come stesse eseguendo dei movimenti di tai-chi. Non solo sfodera un sorriso incredibilmente luminoso e grato , ma accenna addirittura un inchino. Ed io, vado via felice. Innamorata, di quanto la vita sempre e continuamente riesca a stupirci, anche attraverso piccoli gesti.
Autrice: Francesca Palumbo è nata a Bari dove vive e insegna Lingua e letteratura inglese nelle scuole superiori. Si occupa di Alfabetizzazione e certificazione dell’Italiano per stranieri. Organizza seminari sull’Intercultura e laboratori di Scrittura creativa nelle scuole. Blogger e traduttrice, scrive recensioni di libri per testate online e collabora con «La Repubblica». Ha pubblicato la silloge di racconti Volevo dirtelo (Il Filo 2008), il romanzo Il tempo che ci vuole (Besa 2010), l’instant book La vita è un colpo secco (Atmosphere 2014) e la graphic novel In fondo (Fasi di Luna 2014). Con il suo ultimo romanzo Le parole interrotte (Besa 2015) ha vinto il Premio Letterario Nazionale Bari Città Aperta ed è risultata finalista nella terna del prestigioso premio letterario della Società dei Lettori Lucchesi.