Fino all’altro ieri non la conoscevamo. Questo Mediterraneo così piccolo e contemporaneamente distante è la perfetta icona dei nostri tempi terribili.
Shirin Abu Aqleh era una punta di diamante di Al-Jazeera. Una reporter sempre sul campo: giubbotto antiproiettile e volto scoperto. Raccontare la Palestina, in Palestina, significa rischiare la vita. Lei lo sapeva. E insisteva.
Colpiscono, dalle testimonianze raccolte – quasi tutte in lingua araba – alcune somiglianze con la vicenda di Anna Politkovskaja. Entrambe giornaliste, pressoché coetanee (51 anni la palestinese, 48 la russa), legatissime alla loro terra, apostole d’una pace militante, senza sconti. Entrambe vittime di una vera e propria esecuzione, lasciate sole anche durante i funerali.
Non dalla popolazione. Dalle autorità.
I funerali di Shirin, come quelli di Anna, si sono svolti in un’atmosfera carica di pathos. Mancavano le presenze ufficiali, brulicavano i volti comuni.
Sono stati funerali molto pianti, molto arabi. Agli occhi occidentali la lunga sequela di prefiche maschili produce un effetto straniante. Ma, a certe latitudini, ha un significato inclusivo. Shirin è morta martire. È morta, anche, da figlia e sorella della sua gente.
Ne difendeva le ragioni con le armi della ragione e della cultura. Non col fanatismo.
Il feretro di Shirin ha ondeggiato sulla folla avvolto da una bandiera palestinese. Preceduto da una croce in legno, essa pure avvolta, ma in una kefiah bianca e rossa che pareva un sudario.
Shirin aveva studiato a Beit Hanina, presso le suore del Santo Rosario di Maria Alfonsina, al secolo Sultana (Regina) Danil Ghattas, una delle due «sante palestinesi» (l’altra è Maria di Gesù Crocifisso) la cui spiritualità appare oggi sorprendentemente «moderna». Dagli appunti/visioni di suor Ghattas, pubblicati dopo la morte della religiosa, si scoprì, infatti, che la creazione dell’ordine era avvenuta dietro precisa richiesta… della Vergine Maria, «per la promozione delle donne arabe».
Presso le suore del Santo Rosario si sono formate professioniste come Shirin e molte altre, cristiane e musulmane. Migrano per tornare; missionarie della presenza.
Poiché Palestina non è solo Hamas. E non è nemmeno solo Islam.
I cristiani, in Medio Oriente, non sono ospiti. Sono di casa.
María Zambrano si domandava se quanto realizzato dall’Europa fosse davvero cristianesimo. E si rispondeva che se ne era prodotta, al massimo, una versione europea. (La quale, teniamo a precisarlo, va benissimo; nessuno la rinnega. Ma è sufficiente, nell’attuale periodo storico? Non risulta, in un certo senso, acefala?)
È possibile un’altra versione, proseguiva Zambrano, che sia anch’essa europea e, soprattutto, che sia cristianesimo?
Potremmo rispondere con un paradosso: può esserlo soltanto nel momento in cui il cristianesimo riscoprirà le sue radici; cioè, fuori dell’Europa e dell’Occidente.
Per questo la presenza dei cristiani in Medio Oriente è indispensabile: non solo in senso storico, ma come garante di democrazia, diritti e unità per tutta la popolazione (di entrambi i sessi). Almeno, ne ha le potenzialità. E potrebbe rivitalizzare, col suo esempio e se lo vorrà, il nostro cristianesimo impallidito.
Shirin Abu Aqleh è stata una figura emblematica di donna, intellettuale e araba, venuta da lontano, emancipata; senza che ciò comportasse l’approdo a uno scetticismo laicista estraneo al suo contesto storico-sociale.
Tutto quanto è avvenuto grazie al cristianesimo?
Non possiamo negarlo. Anzi lo sottolineiamo. Non stupisce che i media occidentali l’abbiano considerato ininfluente.