A settant’anni dalla morte di Evita Perón, Iaia Caputo racconta La versione di Eva
Quando andai per la prima volta a Buenos Aires, nei primi anni Novanta, avevo il vago presentimento che dall’altra parte dell’oceano ci fosse qualcosa che mi riguardava, ma allora ignoravo che si trattasse di lei. Credo mi aspettasse da sempre in un punto indeterminato dello spazio e del tempo.
Per quasi trent’anni sono stata ossessionata da Evita: ho letto infinite versioni della sua storia, biografie, romanzi, alcuni memorabili, ho visto film, nei quali immancabilmente la protagonista si limita a essere un pallido clone o una parodia di Eva, compresa Madonna; ho visionato ore e ore di documenti filmati dell’epoca, di testimonianze di amiche fedeli e di nemiche velenose, di vecchi compagni dei tempi del cinema e della radio, delle tante persone che dicono, spesso millantando un’intimità mai esistita, di esserle state vicine nei lunghi mesi della malattia, di aver raccolto il suo testamento spirituale, le sue ultime parole… Ma più accumulavo materiale, più sapevo di lei, e più mi diventava impossibile scriverne. E poi come scriverne? Da dove cominciare? Da quale punto di vista? Avrebbe parlato lei? O avrei parlato io? E come ne avrei parlato?
Ma i dubbi non finivano qui. Avrei dovuto mescolare realtà e finzione o privilegiare la finzione fregandomene della realtà? Oppure attenermi alla realtà prendendo la dovuta distanza etica dalla finzione? E si ha poi diritto alla fantasia quando come protagonisti dei nostri romanzi scegliamo personaggi storici, perimetrati da date, eventi politici, atti pubblici, discorsi registrati, gesti scolpiti nella memoria collettiva di una generazione, di un Paese, di un’epoca? Si può trattare il vero come una menzogna ben congegnata allo scopo di rendere più avvincente la storia che stiamo raccontando?
Vagavo nell’indecisione … Per consolarmi mi dicevo quanto riesce a essere di consolazione per tutte le anime dannate dalla scrittura, e cioè che non si può neppure cominciare a riflettere sull’invenzione narrativa senza aver capito che la prima menzogna è la realtà. Ora, con Eva questa consapevolezza non funzionava, dal momento che nella sua vita la realtà appare come una pura invenzione narrativa, e la pura invenzione narrativa sembra essere la sua unica realtà.Sono passati gli anni, ho scritto altri libri, ma Eva, come ha sempre fatto da viva e da morta con chiunque sia stato così incauto da avvicinarla troppo, si era accomodata nella mia testa e non voleva saperne di andarsene. Forse ci avevo persino rinunciato quando finalmente ho capito che il mio errore era stato di cercare un punto di vista. Cioè, di pretendere che ce ne fosse soltanto uno.
Poi, all’improvviso l’ho visto. Un momento, quel momento, documentato da chilometri di pellicola, marchiato nella memoria degli argentini, almeno di quelli nati fino alla metà degli anni Quaranta, apoteosi e caduta: il 22 agosto del 1951, meglio conosciuto come il Giorno della Rinuncia, quello in cui Eva diventa Santa Evita, assurge a divinità e comincia morire. Il giorno in cui doveva essere proclamata vicepresidente nella Formula della Patria: Perón-Eva-Perón, che si trasforma nel giorno in cui Perón le dice di no. Il giorno in cui di nuovo, il giorno in cui, forse, Perón le confessa: «Cholita, hai un tumore, stai morendo».
Non credo esista nella sua breve vicenda umana un altro momento di così inappellabile verità. La sintesi perfetta di un’intera vita, le sue furiose contraddizioni, le ragioni dell’ascesa e del martirio, della funambolica salita fino alle vette del potere e della beffa della sconfitta finale.Sono trascorsi esattamente settant’anni dalla sua morte, eppure, resta una presenza. Non solo nell’immaginario argentino, nell’anima stessa di quel paese, un paese di immigrati, di orfani, di meticci che in Evita, la “bastarda”, la paria, senza padre né istruzione, enfatica e sentimentale, trovò la Madre. Lontana, perduta, come una Patria.
E’ un mito che continua a presentarsi ai nostri occhi come un enigma: animale politico, grande oratrice, trascinatrice di folle, la protettrice dei descamisados, la nemica dell’oligarchia e delle dame di carità, la donna del sindacato, del voto femminile, della Fondazione che porta il suo nome, del welfare argentino, colei che abolisce la parola illegittimo dai certificati di nascita, che costruisce ospedali, case per donne sole e i loro bambini, che ama i poveri ma odia allo stesso tempo i ricchi e i comunisti, gli oppositori, tutti, senza distinzione.
Generosa, dissipatrice di sé stessa, oblativa fino al sacrificio. Oppure intrigante, autoritaria, violenta, rozza e ignorante. Una mina vagante.
Magrissima, appena un accenno di seno, quasi informe, pelle d’alabastro e occhi indimenticabili, una ragazza qualunque, né bella né brutta, magra, troppo magra, vestiti di cattivo gusto, di poco prezzo, nessuno stile. Bruna, poi bionda, sempre più bionda, formosa, carismatica, abiti sfarzosi, ingioiellata come una Madonna, eccessiva, volgare, spendacciona. E più avanti, sempre bionda, ormai quasi platino, i capelli raccolti in uno chignon severo dietro la nuca – quella ritratta fino alla nausea nel santino dell’iconografia ufficiale e che avrebbe cancellato tutte le altre Evita, come se non fossero mai esistite – i tailleurs austeri, pochi i monili, la pelle trasparente come l’avorio sempre più tesa intorno alle ossa, il corpo che torna magrissimo, quasi senza peso, smaterializzato, il fantasma di se stessa, puro spirito.
La vita prima di Perón.
La vita dopo Perón.
Da stracciona a regina.
Da fanatica a martire.
Da martire a rivoluzionaria.La verità è che non è possibile una sola versione di Eva: contraddittoria e plurale, poteva essere raccontata solo da una molteplicità di voci per provare a comporre una complessità forse irrintracciabile, se non per fare pace, forse, con l’unica verità possibile. Evita è stata un’invenzione. Di sé stessa.
di Iaia Caputo