Quando mi hanno proposto di recensire questo libro e di intervistarne le autrici ho pensato si trattasse del solito testo sulle mamme di cui gli scaffali delle librerie sono pieni e spesso gli argomenti sono ridondanti. Per fortuna che il mio primo giudizio è stato annullato dalla lettura dell’introduzione (di Alessandra Ferlini, psioterapeutae soprattutto dalle testimonianze di alcune di queste donne che non parlano solo di quanto sia bello essere mamma o di come sia difficile la cura dei figli contemperata con un mondo del lavoro improntato alle esigenze del ”bread winner”
Ed eccoci quindi all’intervista fatta alle due autrici ed ideatrici del progetto,, Silvia Icardi, giornalista e Roberta Colombo Gualandri imprenditrice nel sociale “La parola delle madri. Voci, sussurri e grida”.
Le madri molto spesso quando si chiede loro se si ricordano la loro maternità, non riescono a parlarne o non se ne ricordano. Questo libro che è stato scritto da Roberta e Silvia che ha anche un impatto sociale, il ricavato verrà devoluto alla Clinica Mangiagalli. Come è nato questo progetto, molto bello?
Silvia: Il progetto è partito due anni fa, abbiamo lavorato in concomitanza con il periodo molto difficile della pandemia da Covid cosa che ha reso ancora più interessante questo progetto perché abbiamo riscontrato una voglia di aprirsi ancora maggiore rispetto ad altri periodi di normalità.
Partito da un’idea di Roberta Colombo Gualandri, mia socia in questa avventura. L’urgenza era quella di mettere a fuoco sia le mamme che siamo sia quelle che non siamo potute diventare o non abbiamo voluto diventare perché naturalmente la maternità comprende tutti, anche le donne che hanno scelto di non essere madri o non hanno potuto diventare madri perché tocca profondamente l’anima di una donna.
Quando si parla di maternità si intende naturalmente il nostro rapporto di madri con i figli ma anche che figlie siamo state perché il rapporto che abbiamo avuto coi nostri genitori influenza profondamente quello che vogliamo dare ai nostri figli o quello che vogliamo evitare perché ci ha ferito profondamente.
Il libro si struttura in una trentina di interviste a donne molto diverse tra loro per provenienza sociale, per storia del loro vissuto ed esperienza di maternità molto diverse l’una dall’altra, che noi abbiamo trattato in forme un po’ diverse da un punto di vista letterale nel senso alcune sono interviste altre testimonianze in prima persona che secondo noi ha reso più forte il senso di immedesimazione di chi ha letto il libro.
Roberta: ho avuto questa idea da un’esperienza personale. Vengo da una famiglia profondamente disfunzionale, con una madre molto depressa e un padre particolarmente violento. Sono cresciuta con una nanny e con quello che io chiamo il mio villaggio emotivo che con le mie zie e le mie nonne che mi hanno molto amato. Quando ho scelto, insieme a mio marito, di diventare madre ho lasciato il lavoro e mi sono dedicata pienamente ai miei figli, ormai grandi, il maggiore ha 24 anni. In questo percorso, per me per altro profondamente felice, perché per me fare la madre, oltre a essere interessante, è sempre stato solo bellissimo, anche nei momenti più difficili, forse perché avevo una visione particolare perché non avevo vissuto un’infanzia da bambina coccolata e accudita. Di conseguenza, ho fatto dell’accudimento la mia scelta principale di vita in generale. Adesso i miei figli sono grandi, il maggiore sta lavorando, l’altro si sta laureando, il mio scenario di vita è cambiato e da molto tempo stavo pensando di dare la parola alle donne perché quando io sono diventata madre, le mie amiche hanno avuto esperienze molto diverse da me: qualcuna ha avuto delle depressioni pesanti e abbiamo avuto tutte esperienze differenti. A questo punto della mia vita ero curiosa di capire all’interno dell’universo femminile, tra persone diverse, che cosa la maternità aveva significato e quanto aveva inciso. E da lì, insieme a Silvia, che è una giornalista, abbiamo iniziato a pensare a questo progetto e a metterlo insieme. Ci abbiamo lavorato, abbiamo cercato donne differenti, abbiamo prima fatto un canovaccio di possibili profili. Ci abbiamo ragionato tanto e anche grazie al Covid abbiamo trovato tanta disponibilità. Molte interviste le abbiamo fatte virtualmente, altrettante le abbiamo incontrate di persona e per cui abbiamo voluto dare uno scenario generale sulla maternità con punti di vista differenti: ci sono donne in carriera, donne con problemi di tossicodipendenza, solitudine, stili diversi di accudimento. La mia idea era dare una voce alle donne, in una maniera neutra, vera e senza giudizio.
Anche donne in ambiti lavorativi diversi, ci sono anche delle mamme full time e dalle interviste che ho letto quella che mi ha interessato di più è proprio quella della mamma leonessa: perché avere 13 figli, non comune al giorno d’oggi, viveva la sua situazione con gioia e felicità. Questa è stata la testimonianza che anche una donna-mamma può avere voglia di avere più figli e riuscire a districarsi nelle esigenze sia biologiche che economiche.
Silvia: queste donne ci hanno un po’ tutte stupite una volta intervistate perché si parte sempre con dei preconcetti e pensare a una donna che ha avuto 13 figli può sorprendere. Naturalmente quella in particolare era una scelta dettata da una motivazione religiosa, ogni figlio è dono di Dio. Lei è stata veramente molto divertente come intervista, per nulla bigotta o sull’aspetto della fede, ma ha costruito un’immagine di sé come una leonessa che combatte per questa specie di clan, che ha creato e che ha delle dinamiche tutte sue molto particolari e molto divertenti. Tanto che per rispettare l’impronta ecologica sul pianeta il bagno è fatto tre figli alla volta, i vestiti vengono trasmessi di figlio in figlio e, nonostante non manchino le possibilità, per il tipo di educazione, non è stato concesso a tutti il motorino, il computer perché c’è una regola di essere equi con tutti. La cosa importante per noi era togliere il giudizio nella maternità, far vedere che ogni mamma è mamma a modo suo, ed è giusto che sia così. Ogni figlio ha una madre che può avere difetti o pregi ma è giusto che ci siano delle unicità e queste relazioni siano uniche e non possano essere incasellate in cliché…la brava mamma è quella che continua a lavorare e manda il bambino al nido a tre mesi perché così si adatterà a stare con gli altri o la brava mamma è quella che quando aspetta un figlio sta a casa dal lavoro. Liberare le generazioni future da questi preconcetti legati alla maternità era il nostro obiettivo principe.
Roberta: e poi dare un messaggio anche agli uomini e lo dico io che ho due figli maschi a cui faccio un’educazione sentimentale fin dalla più tenera età, avere una visione della coppia, della famiglia e dell’avere i figli molto differente. Mio marito fa l’imprenditore ha molto lavorato ma mi ha anche molto aiutato, è una persona aperta pur essendo una persona molto impegnata. Mi è capitato di vedere donne sole, donne che non avevano la possibilità di condividere la quotidianità, ma anche un pensiero: dal mio punto di vista in una coppia condividere l’educazione e l’approccio ai figli è determinante. Due approcci molto differenti tendono a creare situazioni più complicate. Quindi un messaggio anche agli uomini: è vero che l’uomo non partorisce il bambino però ci può essere una partecipazione nuova, un approccio differente alla propria donna che diventa madre di un figlio che è di entrambe.
Un’altra cosa molto interessante del libro, voi parlate della solitudine, della solitudine che le donne sentono quando hanno un figlio anche perché non hanno questa condivisione familiare del coniuge
Roberta: Sicuramente, ma la cosa bizzarra che si può anche notare è che la stessa madre o la stessa suocera o la stessa sorella o la stessa amica non è disponibile a un supporto di tipo anche “ludico”. Se una donna era abituata ad andare a lavorare, uscire per un aperitivo, non è che nel momento che partorisce non può continuare a farlo e sentirsi una criminale se per un’ora lascia il bambino, anche se non è andare al lavoro. Ma ad un certo punto della vita della donna, quello che è dovere è giustificabile, quello che è un piacere che poi fa anche la felicità di una persona non è mai condiviso ma anche dalle stesse donne della famiglia, viene considerato superfluo. Un balance personale è anche un balance di una persona che sta bene, anche una volta alla settimana, non chiudersi nel magico mondo dell’allattamento. Io ho allattato i miei figli ma poi ho amiche che non hanno allattato e hanno dovuto subire giudizi assurdi, ma perché? Può essere che anche una persona si senta di non allattare il proprio figlio.
Silvia: aggiungo anche che l’esperienza della maternità, come il cambio del proprio corpo, e del parto, sia naturale che cesareo, è un’esperienza fortissima a cui nessuno ci ha preparato perché per quanto le mamme e le nonne ci raccontino la loro esperienza. Forse è per questo che ci sentiamo un po’ sole perché è un’esperienza così forte, così stravolgente rispetto a tutto quello vissuto fino a questo momento e questo rapporto di dipendenza di questo essere che naturalmente è nelle nostre mani ci mette di fronte alla dimensione naturale anche spirituale che non abbiamo mai provato. Un’esperienza sconvolgente alla quale arriviamo secondo me un po’ impreparate e che perciò determina questa frequenza di sentimenti di solitudine che possono sfociare in depressioni post-parto, perché è qualcosa che ci collega a qualcosa di molto profondo.
Cosa ne pensi delle donne che partoriscono per altre donne, degli uteri in affitto? Nel vostro libro non ne parlate ma è consequenziale a quello che hai detto.
Silvia: è molto difficile perché su quello che è il desiderio di maternità di chi non può avere figli è qualcosa che se uno non l’ha provato non sa che cosa significhi. Si può decidere di non avere figli potendoli fare, una donna per forza non deve realizzarsi facendo un figlio. Però ci sono donne che sentono questo desiderio così forte che sono disposte a tutto. Il fatto di affittare l’utero comporta un passaggio in più perché c’è una specie di forma di asservimento: quanto questo è slegato da motivazioni economiche? Un conto è se una donna decide di dare il proprio utero a un’altra donna perché sono legate, perché lo sente; un altro conto è se una donna è in difficoltà economiche e fa questa scelta perché le viene risarcita. E’ molto difficile.
Roberta: è una risposta molto difficile da dare, sia per chi lo vive e chiede una cosa del genere non potendo avere figli, sia per chi si sente costretto perché in una condizione economica particolarmente disagiata. Bisognerebbe capire di caso in caso, è molto complicato giudicare.
E i parti che non vanno a buon fine o le persone che danno alla luce figli che restano disabili tutta la vita? Voi ne avete anche parlato nel libro
Silvia: sì, una donna che ha un bambino con problemi che non si risolveranno mai completamente. Sinceramente questi sono dei veri eroi del mondo contemporaneo, sono persone che si vedono costrette, ma diventa il loro obiettivo di vita, in situazioni che compromettono tutta la loro esistenza, che veramente coinvolgono tutte le sfere, da quella lavorativa: ci sono persone che dedicano l’intera esistenza a figli anche quando non ci sono speranza di alcun tipo di miglioramento. La cosa incredibile è che queste persone vivono come un peso enorme il momento in cui non ci saranno più loro per prendersi cura di questi figli.
Roberta: Esatto, che si collega poi al senso di responsabilità che nessuno spiega a una giovane madre. Io non ho mai sentito nessuno dire: “la tua vita cambierà per sempre, non solo perché partorirai e ci sarà tutto il tuo percorso materno, ma dal momento che tu partorirai sarai responsabile della vita di un’altra persona per sempre”. Ed è una dimensione di vita totalmente cambiata. E soprattutto per i primi anni di vita: se non lo nutri e non lo curi quel bambino è morto. Tu sei una persona che ha una responsabilità verso una persona cui sei connessa nel profondo dal momento in cui partorisci. Ed è anche uno stato emotivo molto forte, molto bello, quasi di onnipotenza ma molto forte. Che non è uguale per tutti, perché per qualcuno essere iper responsabilizzato è una cosa assolutamente accettabile, per altri è un senso d’ansia infinito. Andrebbe un po’ più spiegato.
Secondo te bisogna spiegarlo? Secondo me avere un figlio non è un gioco. Secondo te bisogna spiegare a una donna che dal momento che avrà un figlio la sua vita sarà diversa? A partire dal suo corpo, ma poi anche avrà la responsabilità di un essere umano
Roberta: Sì perché questa cosa può essere spiegata anche con una connotazione positiva, non per forza negativa. Tu hai un cambiamento: ad esempio, se accetti un lavoro molto impegnativo è chiaro che lavorerai 15 ore al giorno perché vai a fare un lavoro di grande importanza. Se decidi di diventare genitore comunque ci sarà un senso di iper responsabilità. Se questa cosa viene elaborata non sarà facile ma sicuramente sarà facilitato il percorso.
Silvia: Io anche, nel senso che il lavoro da 15 ore puoi decidere di lasciarlo, un figlio è per sempre. Per cui questo fatto deve essere ben chiaro a chi divento genitore perché temo che molte volte lo si diventi pensando di avere un bambolotto tra le mani e tutto il resto non lo si considera.
Una cosa da cui non si può tornare indietro perché una volta che hai un figlio te lo porti dietro per tutta la vita. Mi hanno interessato molto anche le interviste che avete fatto alle imprenditrici perché molte di loro hanno avuto dei problemi ma sono state aiutate e questo è invece un problema per molte donne che non hanno aiuti, neanche dallo Stato, se pensiamo agli asili nido, però questo non le fa desistere dal desiderio di avere un figlio ed è molto bello perché significa che ci credono.
Silvia: dico una cosa, in Italia lo Stato sociale da un punto di vista della famiglia è carente perché ci sono paesi in Europa che hanno asili nido a prezzi diversi dai nostri, aiuti e periodi di congedo parentali molto più lunghi. Molto può essere fatto in Italia. Anche Achille Staletti, unica voce maschile molto interessante, nella sua prefazione sottolinea questa disparità tra chi può permettersi degli aiuti e chi invece no e sicuramente le esperienze differiscono molto. Poi non è detto che avere un aiuto per l’accudimento dei figli possa fare la felicità
Roberta: no ma può fare la differenza soprattutto per le donne che lavorano. Se già le aziende private avessero dei reali nidi questo aiuterebbe moltissimo perché una donna potrebbe rientrare dalla maternità, lasciare il bambino in azienda. Molte aziende americane lo fanno, in Italia siamo ancora un po’ indietro su questo fronte.
Voi invece nella vostra vita come avete seguito i vostri figli?
Roberta: io mi sono molto dedicata, ho deciso di smettere di lavorare però a me piacciono molto i bambini e gli adolescenti e non vedo l’ora di diventare nonna per tornare a giocare! Adoro giocare e l’accudimento, ecco perché ho lasciato il lavoro per vent’anni e mi sono completamente dedicata alla maternità.
Silvia: Io ho continuato a lavorare, però ho un figlio unico molto desiderato e perciò anche io mi sono dedicata tantissimo almeno nei suoi primi 14 anni, pur continuando a lavorare. Poi chissà cosa fa il bene dei nostri figli se esserci o non esserci, lo sapremo dopo! Ognuno deve essere madre come si sente di essere madre, questa è la cosa principale che vogliamo trasmettere.
Lo si può acquistare su Amazon, su Feltrinelli. E’ un libro da tenere sul comodino, da leggere tutto d’un fiato ma con il piacere di tornare su alcuni aspetti.
Silvia: il ricavato è devoluto interamente alla Fondazione Rava per il progetto “umanizzazione del luogo della nascita” presso la Clinica Mangiagalli di Milano, per rendere più accogliente il luogo del parto che è magico, dal punto di vista anche cromatico, sonoro, temperatura dell’ambiente.