Gianni Amelio, il regista del signore delle formiche, ricostruisce in questo ultimo film il «caso Braibanti»
Il Signore delle Formiche era in concorso alla 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia dove ha conquistato il “Premio Brian”.
Gianni Amelio, il regista, ricostruisce in questo ultimo film il «caso Braibanti», il primo processo per plagio fatto in Italia: sul banco un professore 45enne, Aldo Braibanti: poeta, drammaturgo, ex partigiano, ex dirigente del partito comunista, studioso dei comportamenti delle formiche, accusato di aver «ridotto in totale stato di soggezione» il 23enne Giovanni Sanfratello, per due anni suo compagno e poi rapito, letteralmente, dalla famiglia che rinchiuse il ragazzo in un ospedale psichiatrico padovano e denunciò Braibanti per «plagio», rispolverando l’articolo 603 del Codice penale o codice Rocco, istituito nel 1930 e che prende il nome del suo principale estensore, il guardasigilli del Governo Mussolini Alfredo Rocco.
Il film è ambientato nella provincia italiana, si sviluppa nell’arco temporale che va dal 1964 al 1968 e racconta, nella prima parte, della personalità forte e poliedrica espressa da un professore animatore di un centro policulturale, dei suoi metodi sperimentali alternativi e della evoluzione della storia sentimentale con il giovane Ettore (nome di fantasia).
Nel film viene rappresentata crudamente la prassi terapeutica dell’epoca, per quella che veniva considerata una malattia organica, basata su fantasiose terapie a base di elettroshock, imposta dai luminari e accettata come salvifica dalle famiglie.
Incidentalmente, o forse no, il passaggio induce ad una riflessione sulla sostanziale, irrisolta incapacità generazionale delle famiglie ad accettare le scelte dei giovani quando si pongono al di fuori della tradizione e dei modelli socialmente accettabili.
La prima scena del film mostra, alla Festa dell’Unità, i protagonisti principali: Aldo Braibanti con il giovane Ettore; Ennio Scribani (interpretato da un convinto Elio Germano) giornalista tenace e tignoso dell’Unità incaricato di seguire il caso, all’inizio riluttante e in seguito coinvolto in prima persona tanto da battersi col suo diplomaticissimo direttore che preferisce l’uso di un’ambigua moderazione nei toni degli articoli sul processo, per non turbare il moralismo peloso dei suoi lettori, impedendogli di scrivere negli articoli “omosessuale” o “Partito Comunista”.
Personaggio di fantasia, il suo, mentre nella realtà storica sembrerebbe che il quotidiano l’Unità difese con forza Braibanti e non lo scaricò come invece appare nel film. |
A fronte di un’opinione pubblica solo apparentemente distratta o indifferente, in realtà conformista, bacchettona e clericalmente omofoba, il film racconta di una tardiva, sparuta e non meglio qualificata solidarietà, in difesa del professore, solo nella fase del processo.
Nessun riferimento, nel film, ai numerosi appelli fatti da alcuni intellettuali italiani come Alberto Moravia, Carmelo Bene, Pier Paolo Pasolini, Umberto Eco per esprimere vicinanza a Braibanti e, politicamente, solo i radicali manifestarono a suo favore e questo spiega l’altro personaggio, Graziella, cugina e coinquilina di Ennio Scribani.
Dopo questo incipit si torna indietro e nel film viene raccontato l’incontro dei due amanti nel 1959 a Castell’Arquato, dove Braibanti aveva dato vita ad un laboratorio culturale in cui arrivavano giovani per fare sperimentazione e ricerca che riguardavano il teatro e altre discipline artistiche.
La sceneggiatura, scritta dallo stesso Amelio insieme a Federico Fava e a Edoardo Petti, in cui si è voluto dividere il racconto nei due momenti topici, quello del nascere e crescere della storia sentimentale tra Aldo e Ettore e quello della vicenda processuale, rende la narrazione nel film alquanto didascalica e piatta inoltre il taglio dato dal regista al personaggio Braibanti, interpretato da Luigi Lo Cascio, è quello di una figura ombrosa e scontrosa che non suscita empatia. Il suo mutismo in aula, lungi dal sottolineare l’ingiustizia subita, come forse lui vorrebbe, lo rende distante e altezzoso.
Quello che ne esce è un film che vorrebbe andare oltre il «caso Braibanti» per restituire il ritratto culturale e generazionale di un’Italia nella quale – nel bel mezzo di una rivoluzione politica, sociale, sessuale ed esistenziale in cui per la prima volta si univano studenti, lavoratori, intellettuali e minoranze – si stava consumando una tragedia umana a causa del sopravvivere di una pervicace, retrograda mentalità conformista e di un rigido cattolicesimo oscurantista, molto ben rappresentati, durante il processo, dal tono fintamente paterno e buonista del giudice, da un non meno efficace linguaggio degli avvocati, stupidamente supponenti quando non arroganti e omofobi e dalla cieca fiducia riposta dalla madre del giovane Giovanni Sanfratello nella efficacia di un intervento di Padre Pio.
La rappresentazione di una reazione istintiva e violenta di un’Italia “benpensante” che rifiutava ogni posizione anticonformista e in particolare si schierava contro il fantasma dell’omosessualità derubricandola a malattia, secondo uno schema di non accettabilità, e dunque intrinsecamente dannosa.
Lo stesso termine omosessuale, all’epoca, veniva difficilmente pronunciato e quasi sempre sostituito da aggettivi come il più dispregiativo culattone che campeggia sulla casa del professore piuttosto che pederasta, invertito come Amelio fa dire ad un giovane avvocato calabrese che smonta la dignità della protesta sull’ingiustizia del caso convinto che… “le manifestazioni si devono fare per protestare contro la guerra in Vietnam, e non per difendere un omosessuale”.
Del resto: “Se sei omosessuale, o ti curi o ti ammazzi”.
E’ un peccato, a mio parere, che non si sia colta l’occasione per dare più visibilità alla trasformazione socioculturale messa in atto in quel periodo dai movimenti studenteschi e operai.
Peccato perché nel film, viene comunque raccontato metaforicamente, che le formiche sanno anteporre il bene collettivo a quello individuale, hanno infatti, due stomaci: uno che consente loro di nutrirsi e l’altro “sociale” che permette loro di fare provviste per nutrire le altre formiche che, per vari motivi, non possono uscire dal formicaio.
Una metafora e critica al capitalismo, causa dell’egoismo e dell’individualismo dilagante la cui natura era, per la prima volta in quegli anni, messo in discussione e procedeva con una presa di coscienza e una nuova, diversa fiducia nelle proprie capacità che ha caratterizzato tutto il secondo dopoguerra e gli anni della crescita economica e sociale del Paese.
Un mondo in crescita che doveva risultare straniante per la figura sottotono ma incisiva, secondo me, della mamma di Braibanti di cui poco o nulla si sa. Eppure, di fatto, è forse il personaggio che suscita più commozione ed empatia così apparentemente fragile e sola, eppure così orgogliosa, tenace, forte e protettiva come solo una madre sa essere; una figura che fa da contraltare alle altre due figure femminili che attraversano la storia e che raccontano tre percezioni diverse della stessa realtà.
La mamma di Aldo Braibanti, che pur non capendo fino in fondo nemmeno quale sia la posta in gioco, difende e protegge il figlio. C’è il vincolo di sangue che viene prima delle regole sociali e degli interessi di parte anche se si tratta del presunto carnefice;
la mamma di Ettore (Giovanni Sanfratello), madre della presunta vittima che, in buona fede, pensa di difendere il figlio da se stesso sentendosi forte dei principi della propria cultura cattolica e conservatrice;
la giovane Graziella che si espone e trascina con se, i compagni studenti, nelle manifestazioni di protesta durante lo svolgersi del processo, sentito visceralmente come ingiusto, seguendo quell’entusiasmo e generosità che hanno alimentato il vissuto di tanta parte della gioventù di quegli anni.
Il 1968, va ricordato, fu l’anno della sentenza di primo grado che condanna Braibanti a 9 anni di reclusione ma anche l’anno della rivoluzione civile, oltre che medica, di Franco Basaglia che in un documentario di Sergio Zavoli “I giardini di Abele” affermava:
“Quando una persona disturba, malato o meno che sia, va a finire in manicomio o in carcere”
Profetico
Braibanti trascorre due anni in carcere, che descrive con queste parole, tratte dal volume Emergenze. Conversazioni con Aldo Braibanti (2003):
“Quel processo, a cui mi sono sentito moralmente estraneo, mi è costato due nuovi anni di prigione, che però non sono serviti a ottenere quello che gli accusatori volevano, cioè distruggere completamente la presenza di un uomo della Resistenza, e libero pensatore, ma tanto disinserito dal mondo sociale da essere l’utile idiota adatto a una repressione emblematica…”.
Una storia, quella di Braibanti, che aveva un illustre precedente e che ha riguardato un ben più noto personaggio che aveva comunque pagato pegno per sue convinzioni e scelte, Pier Paolo Pasolini, espulso dal Partito comunista italiano per ‘indegnità morale’ nel 1949.
Il punto di partenza della vicenda Pasolini sono i ‘fatti di Ramuscello’. Qui, in campagna, durante una sagra di paese, il 27enne regista sembra fosse accompagnato da quattro ragazzetti (due di 15 e due di 16 anni). Gli accadimenti successivi innescarono l’accusa di corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico.
Al momento dei fatti, Pasolini insegnava alle scuole medie, ma rivestiva gli incarichi di segretario di sezione, ispettore regionale di un’organizzazione giovanile, e soprattutto era uno dei più promettenti intellettuali del partito.
La figura di Aldo Braibanti è invece pressoché sconosciuta ai più. In questo senso, probabilmente, il film è un modo per riscattarne la memoria nell’anno del suo centenario, che condivide con Pier Paolo Pasolini. Entrambi poeti, registi impegnati nel cinema e nel teatro, intellettuali scomodi che hanno sofferto di una condizione di emarginazione per le loro scelte sessuali.
Per tornare al film una nota negativa la attribuirei alla scelta delle musiche che, come spettatrice, penso siano un elemento molto importante nel coinvolgere lo spettatore e che in questo caso invece non sono state incisive. Mi ha commossa, per la scena dell’ultimo incontro tra Aldo Braibanti e Giovanni Sanfratello, la scelta del sottofondo musicale nel duetto finale tra Aida e Radames, anche loro vittime di un amore tragico e contrastato.
Quegli anni, però, sono stati anni di svolta anche nella musica. In Italia i cantautori denunciavano il conformismo e l’ipocrisia della società borghese; musicisti italiani come Paolo Conte, De Andrè, Jannacci hanno pubblicato molti dei loro capolavori senza dimenticare Paolo Pietrangeli che compose “Contessa”, la più celebre canzone legata alla contestazione studentesca.
In fondo il film ha una connotazione socio-politica e culturale dunque, forse, una colonna sonora più coinvolgente e aderente al momento storico avrebbe contribuito a dare più movimento alla narrazione rimarcando con più efficacia la distanza tra quello che avveniva tra le mura del tribunale, con protagonisti ancorati a vecchi schemi sociali e culturali, e i cambiamenti in corso all’esterno nella società civile.
In conclusione nonostante il carisma del regista, la bravura degli interpreti e nonostante la bella fotografia nel complesso un film che convince poco e non coinvolge pur affrontando il tema ancora scottante della omosessualità e della sua accettazione sociale, tutt’altro che risolto.