di Daniela Tuscano
Di Raquel Welch, scomparsa a 82 anni il 15 febbraio 2023, sapevo pochissimo. Quanto bastava. Che era bella e festosa, donna totale, più erede di Mae West o Rita Hayworth che antenata di Shakira. Anche se si denudava, c’era qualcosa di pudico nel suo corpo, nel suo sorriso eburneo e meticcio. Qualcosa che l’accomunava alle tele rinascimentali, alle allegorie di Giacomo Serpotta, e, in fondo, alla famiglia.
Mentre lei spopolava con pellicole destinate a rimanere nell’immaginario collettivo benché non sempre memorabili (“Un milione di anni fa”, il bikini in pelle!), io trascorrevo la mia estate calda ad Arenzano in famiglia, con mio padre che si divertiva leggendo “Piccolissimo” del mitico Antonio Amurri: piccolissima, gustosa saga familiare grazie alla quale conobbi per la prima volta il nome di Raquel.
Il protagonista, papà Antonio medesimo, trovava “inquietante” l’apprezzamento verbale tributato all’attrice dai numerosi figli (allora i figli erano numerosi, in Italia): “Raquel è fichissima!”.Raquel, bastava il nome. Ma come lo pronunciava Manuel Fantoni, nessuno. Nel monologo di “Borotalco” la descriveva tutta: seni-borracce, capezzoli-chiodi, “belli, rosa, da attaccarci un quadro”. Alla faccia delle arditezze futuriste. Pronunciato con un’enfasi così vellutata che, lo capivi, gli bastava il sogno, e Manuel, un po’ playboy e molto bambino, di sognare era capace.
Oggi, a forza di voler vedere tutto, il nostro occhio è diventato satollo: e cieco.