La prima icona si chiama Serena. Serena e Angelica, la sua bambina di cinque anni appena scomparsa. Serena, Angelica e papà Matteo. E poi lui, il vecchio successore di Pietro. Ma anche un po’ Gesù. Insomma, papa Francesco, appena dimesso dall’ospedale.Serena è la donna della decima stazione, quella della Via Crucis che si batte il petto su Cristo. Ed è Marta, o Maria, che urla al maestro la miseria della condizione umana. Ed è Rachele, che piange i figli.Ma è soprattutto Serena, potente effigie d’oggi, che irrompe nell’oggi e squarcia il velo d’ogni tempo. Immortale, avendo assunto la disperazione piena, schietta, senza celarla. L’ha, quindi, catturata e vinta. Pur se ancora non lo sa.Serena non aspetta la resurrezione. Chi l’abbraccia non è Cristo, è solo il vecchio Pietro. La resurrezione di Angelica spetta a lei, è già cominciata con quel dolore crudo e innocente, condiviso con Matteo – solo la famiglia trasforma in lievito il dolore – e col papa, con tutti noi. Questa volta i mass-media ci hanno mostrato immagini vere, persone e non cose. E Matteo così ha tradotto quelle lacrime: “Ogni vita è importante, ogni vita deve vivere”.Papa Francesco è anche un po’ Gesù. Non fa miracoli. È debole e acciaccato. Ma non lo era anche il crocifisso, duemila anni fa? Il crocifisso non compie più miracoli, non salva più nessuno, nemmeno sé stesso. Sta appeso, come quella Serena Disperazione al vecchio, impotente successore di Pietro. Sta a dirci che nel momento più tetro, c’è. Sta a dirci di non provare vergogna. Sta a dirci che tornerà.
La seconda icona ha nome Halit. O Gizem? Non si sa, sembra però che la notizia sia vera. La neonata trovata viva sotto le macerie del terremoto che a febbraio ha devastato una Siria già allo stremo, e ancora legata al cordone ombelicale, era già un miracolo. Un miracolo solitario. Che ne sarebbe stato di lei? Ma i miracoli procedono per moltiplicazione, quasi per innesto. Pareva saperlo, Halit/Gizem (=mistero), e sorrideva con quegli occhioni profondi, così lieta del mondo, e non chiamatela ingenua: era uno sguardo forte il suo, d’una fiducia potentemente umana, iniziatica. Poi, dopo qualche tempo, il cordone si è riallacciato. La madre, data per morta, in realtà era sopravvissuta e Halit/Gizem gliel’hanno restituita piccola, priva di tutto, libera di dipendere, di aggrapparsi al seno materno. È una natura che rientra, una resurrezione diuturna, al femminile, e poco conta il suo nome. È già sepolcro che si apre, vuoto d’amore.
Si narra che il 2 aprile 1968, dopo la rovinosa conclusione della Guerra dei Sei Giorni, l’Egitto abbia avuto una visione. Più che l’Egitto l’ebbero dei meccanici di Zeitoun dalla cui officina si intravedevano le cupole della chiesa copta e, alla sommità, una donna “splendente, non come una donna comune”. Aspettate a sorridere. Il bianco e nero di quegli anni è insieme naif e perturbante. La chiesa, persino la diafana figura della Vergine richiamano scenari da Metropolis. Che poi era la torre di Babele con la donna-messia-robot. La vera e la falsa Crista. Ma Maria era autentica. Non per le immagini, che non possono imprigionarla. Arrivarono i sacerdoti, accorse il presidente Nasser, non esattamente un religioso modello. Accorsero, in particolare, uomini donne e bambini d’ogni dove e colore. A cominciare dagli operai dell’officina di fronte. Se Caravaggio creò una Madonna dei palafrenieri, perché non può esistere una Madonna dei meccanici?Tanto più che da quelle parti doveva trovarsi a suo agio. Erano luoghi che conosceva bene. Il “suo” Egitto, nel Novecento, si trovava un po’ in ginocchio, ma lei recava un messaggio di pace: salam, shalom. Ciò cui tutti aspiravano. Anche i musulmani sono devoti alla Madonna dei meccanici, benché nessuno la chiami così (e forse dovrebbe); la terza icona di Quaresima non può essere che lei. In Maria ognuno trova una propria via di pace. Dalla disperazione intima, alla speranza ridonata, a una pace per ognuno, nelle proprie diversità. Zeitoun, secondo la tradizione, è il luogo dove la Sacra Famiglia si fermò a riposare.