“Norme per la tutela della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza”.
Nessuno avrebbe potuto prevedere che tale sacrosanto diritto – riconosciuto nel lontano 1978,
dopo anni di lotte femministe di rivendicazione – sarebbe stato contrastato, a 46 anni di distanza,
da un esecutivo con impulsi nostalgici di mussoliniana memoria, abilmente contraffatti ma mai
interamente sopiti.
A dispetto dei reiterati proclami istituzionali sul valore delle libertà individuali, la scelta di non
avere figli continua infatti a essere fortemente stigmatizzata, a prescindere dalla motivazioni da cui
deriva.
Complice il dicastero per le Pari Opportunità e la Famiglia (sic!), la tanto decantata “applicazione
integrale” della suddetta normativa, meglio nota in termini di legge 194/78, si sta insomma
traducendo in un percorso a ostacoli, senza possibilità apparente di appello da parte delle
aspiranti “madri rinunciatarie”.
Direttamente proporzionali all’incremento degli obiettori di coscienza in ambito sanitario, le
notevoli limitazioni che vincolano il ricorso all’aborto, con la conseguente riduzione degli accessi
consentiti nelle strutture preposte, lasciano intuire una svolta drastica nella valenza
dell’autodeterminazione quale strumento di conquista e salvaguardia dei diritti civili
costituzionalmente sanciti.
L’improvvisa, ma non certo inattesa, comparsa dei cosiddetti comitati a tutela della vita sulla
scena nazionale incarna un’ulteriore conferma della deriva etica intrapresa dal paese grazie a una
linea politica inequivocabilmente repressiva, oscurantista, penalizzante ma estremamente
funzionale a un sistema fedele al dogma “Dio, patria e famiglia”.
Divenuto ormai anche slogan ricorrente delle destre: non a caso viene declamato a gran voce
ovunque vi sia spazio per il soffocamento di singole aspirazioni sgradite ai sodali autocrati
insediati ai vertici (con l’incauto consenso dei delusi dalle precedenti amministrazioni, ormai
palesemente privi della benché minima facoltà di valutazione e giudizio).
Il risultato di tanta intraprendenza politico-religiosa a opera del governo è che chi vuole abortire si
ritrova ad affrontare non soltanto ostacoli medici, ideologici e burocratici quasi insormontabili, ma
anche intollerabili umiliazioni assai poco consone alla parvenza altruista da cui pretende di
derivare.
La crociata a difesa dei nascituri rischia sostanzialmente di culminare in soprusi, violenze
psicologiche e intimidazioni accompagnate da irrisorie proposte di denaro, a garanzia della
prosecuzione incondizionata di una gravidanza indesiderata.
Alcuni attivisti di un Centro genovese per la vita hanno tentato (invano) di dissuadere una donna
dall’abortire mediante un offerta di 100 (cento!) euro seguita dalla promessa di ulteriori contributi
economici fino a parto avvenuto.
E non si tratta di un caso isolato: le tentacolari interferenze nelle risoluzioni personali in materia di
aborto paiono destinate a focalizzare l’attenzione generale indefinitamente. É ovviamente
impossibile azzardare le ripercussioni che ne deriveranno; l’unica certezza è che nulla rimarrà
invariato. A partire dai risvolti psicologici di questa guerra occulta alla libertà di decisione.
“ll medico ha cominciato a sgridarmi dicendomi che quello era il mio bambino con un battito
cardiaco”, ha emblematicamente dichiarato una malcapitata . “Mi ha fatto capire che stavo
occupando il posto di donne con il cancro quando avrei potuto stare più attenta”.