Credo di essere stata un po’ innamorata di Lea Pericoli, da bambina. Era l’opposto di me, biondissima, aggraziata ma non leziosa, pareva non toccar mai terra. Le avevano disegnato una gonna con piume di cigno, che indossava con spontaneità non umana. Quella che vedevo era un vero uccello, forse per questo mi piaceva tanto. Avevo pure cominciato a prendere lezioni di tennis: col mio amatissimo gonnellino plissettato mi sentivo un po’ lei.
L’angelo capovolto fu il giusto titolo del suo ultimo libro. Qualunque cosa intendesse, restava impagabile la sua torsione berniniana, che sfidava le leggi di gravità. Era una milanese d’Africa, infanzia vissuta ad Addis Abeba, periodo tetro, di guerre coloniali, ma fu laggiù che emerse la sua passione e a quei luoghi sempre rimase legata, come ricorda nella sua autobiografia Maldafrica.
Poi la terribile malattia. Carcinoma all’utero. Lo seppi dai miei genitori. Se adesso difficilmente se ne esce, nel 1972 non dava scampo. E le cure erano, come Lea stessa dichiarò, «devastanti». Quando le comunicano la notizia, sviene. È un attimo. Ricorda subito chi è, la «Divina». Sconfigge il tumore. Non è finita. Il maledetto si ripresenta nel 2012, quarant’anni dopo. Questa volta al seno. I tempi sono mutati, la medicina meno invasiva, ma Lea è sempre Lea, malgrado gli sfregi al suo corpo e alla sua femminilità. Arriva a quasi 90 anni in salute, ancora bellissima, sempre tanto bionda (ma mai troppo), elegante per antonomasia, non solo campionessa sportiva: anche scrittrice, conduttrice televisiva, testimonial contro una malattia che non è riuscita a domarla, segno di speranza non solo per chi ne è preda.
Muore il 4 ottobre, festa di San Francesco. Coetanea di mio padre, lo supera d’un anno. Tocca l’ultimo traguardo ancora una volta sola, ancora volta unica.