regia di Pedro Almodóvar
con Julianne Moore, Tilda Swinton, John Turturro, Alessandro Nivola
Dal 5 dicembre nelle sale
Del brillante, irriverente Pedro Almodóvar che ci fa compagnia da più di 40 anni con film variopinti e trasgressivi resta il magico tocco della regia e le magnifiche scenografie dai colori pastello in accostamenti sempre perfetti, gli stessi degli abiti dei protagonisti. Ma in quest’ultimo lavoro, premiato alla 81 esima Mostra di Venezia col Leone d’oro, a predominare sono il pudore e la profondità della riflessione su un tema doloroso che riguarda tutti (prima o poi): la nostra fine e i modi di accoglierla (o respingerla, o rimuoverla).
La strada percorsa, con tutti i dubbi che un argomento così immenso comporta, è sotto il segno di una pacata, razionale lucidità. Non ci sono eccessi, niente è sopra le righe, come se, per timore di farsi trascinare dal sentimentalismo melodrammatico o di essere patetico, il registra spagnolo avesse volutamente raffreddato ogni momento del film. Un testamento spirituale (ma lunga vita a Pedro, ovviamente), un saggio in forma di film, il tentativo di trovare anche di fronte all’addio finale uno sguardo positivo e immerso nel sociale, debitore della dimensione collettiva. Perché gli altri, gli amici, il gruppo di riferimento, la famiglia allargata e quella su misura restano centrali. Una convinzione e un messaggio presente in tutti i film del regista spagnolo perché nessuno può né deve vivere (o morire) da solo.
Potremmo essere in un film di Woody Allen e non solo perché ci muoviamo fra Manhattan e il New England. Ma perché l’ambiente è quello, la borghesia benestante e illuminata, composta da persone colte, con una vita intensa alle spalle e tante idee sul futuro, uomini e donne intelligenti, ironici, rispettosi degli altri e del mondo. Quella che un tempo si poteva definire avanguardia intellettuale.
Ingrid (Julianne Moore, perfetta) ne è una tipica esponente. Scrittrice arrivata al successo con quella che oggi si definisce autofiction, ha appena traslocato a Manhattan e vive in mezzo agli scatoloni, intanto presenta il suo ultimo libro (che belle le riprese alla Libreria Rizzoli).
Qualcosa di inaspettato irrompe nella sua vita quando una vecchia amica ritrovata, affetta da un tumore incurabile, le chiede di accompagnarla nell’ultimo viaggio: si è procurata nel dark web la pillola per una fine autodeterminata.
Lei è Martha (che dire della bravura di Tilda Swinton?), inviata di guerra e in guerra con la figlia. Martha ha sempre deciso della sua vita e vuole continuare a farlo fino alla fine, inventandosi il modo più dolce, in un certo senso più giusto.
Chiede a Ingrid di passare con lei una vacanza in una bellissima villa nel New England. Una vacanza vera, dove passeggiare, chiacchierare, rivedere vecchi film, condividere buone cene. Ingrid dovrà stare nella “stanza accanto”. Si accorgerà che tutto si è compiuto quando la porta della camera che Martha tiene sempre aperta, resterà chiusa
Tutto quello che succede fra le due donne è il film. Gli impercettibili sbandamenti delle emozioni che tutte e due per carattere, per impostazione, tengono a freno, la gioia delle vite che hanno vissuto, l’amante condiviso, lo stato delle cose del mondo, l’amicizia, le paure, la guerra e le guerre, il cambiamento climatico. E l’affetto, l’umanità, la discrezione dei sentimenti.
Impossibile non amare il film, impossibile non identificarsi. Io mi sono ritrovata in ogni parola, mi sono riconosciuta in ogni esitazione, in ogni dubbio. Perché nessuno può sbandierare certezze su temi che toccano così nel profondo l’intimità di ciascuno. E ho tanto ammirato la capacità di Pedro Almodóvar di riuscire a trovare la bellezza anche nella fine. Tilda Swinton e Julianne Moore, meravigliose, palpitanti, dirette con infinito amore, generose nel darsi completamente al film, ai personaggi, al regista e allo spettatore, sono le eroine di un inno alla vita. Perché parlando della morte è della vita che il film tesse gli elogi.
Un altro grande regalo dalla sensibilità creativa e umana di Pedro Almodóvar.