“Negli ultimi quarant’anni, da quando i governi hanno accettato che il capitalismo neoliberista elevasse la produzione di profitto a principio organizzatore della vita, la crisi della cura si è aggravata. La priorità accordata agli interessi del capitale finanziario e ai suoi flussi ha accompagnato lo smantellamento impietoso dei sistemi di welfare, così come delle istituzioni e dei processi democratici.
Le logiche di mercato, come sappiamo, si sono tradotte in politiche di austerità che hanno ridotto al minimo gli strumenti che ci consentirebbero di contenere l’attuale pandemia, lasciando molti ospedali privi persino dei basilari dispositivi di protezione individuale necessari a medici e infermieri.
La delegittimazione della cura e del lavoro di cura, tuttavia, ha una storia molto più antica. La cura è stata a lungo svalutata, soprattutto perché associata al concetto di donna, di femminilità e di attività ‘improduttiva’. E così il lavoro di cura è rimasto soggetto a una retribuzione e a un prestigio sociale inferiori, ad eccezione dei dirigenti del settore, muniti di costosi diplomi. Il modello neoliberista ha semplicemente attinto a una tradizione di svalutazione, torcendo, rimodellando e aggravando le disuguaglianze.
Del resto il soggetto archetipico del neoliberismo è l’individuo imprenditore che entra in relazione con gli altri soltanto per competere e migliorare la propria posizione. Ne è emerso un modello dominante di organizzazione sociale sulla competizione, non sulla cooperazione. Il neoliberismo, in altre parole, non dispone né di una pratica efficace né di un vocabolario per la cura. Le conseguenze di tutto questo sono state devastanti. La pandemia ha reso evidente l’incredibile violenza del mercato neoliberista, il modo in cui ci ha privato della capacità di fornire e ricevere cura.”
Il neoliberismo è progettato per essere incurante ed è una seria minaccia per tutte le forme di cura che non sono utili all’estrazione di profitto. Basti pensare alla trasformazione italiana degli ospedali in aziende ospedaliere. Con tutte le conseguenze che ci ritroviamo a vivere e che puntano sempre più verso la privatizzazione e a sistemi altamente discriminanti. Le liste di attesa sono sempre più lunghe e sono il risultato di politiche neoliberiste estreme e durature.
Occorre adoperarsi per costruire un modello di cura universale, coltivare politiche di cura, e un modello di mondo sostenibile, significa innanzitutto ammettere la nostra reciproca interdipendenza, assicurare una redistribuzione dei compiti di cura egualitaria e superare l’idea che sia una forma di lavoro improduttiva o che sia esclusivo appannaggio delle donne, prevalentemente povere, immigrate e non bianche. Giungere al punto in cui l’intera società condivida gioie e fatiche della cura. Reimmaginare i confini della cura familiare ampliandoli, rivendicare forme di vita collettive e comuni, adottare alternative al mercato capitalista e resistere alla mercificazione della cura e delle sue infrastrutture. Ripristinare, rinvigorire e rafforzare alla radice i nostri sistemi di welfare, coltivare forme di convivialità più cosmopolite, con confini porosi (per le migrazioni, ndr) e green new deal transnazionali.
Così leggiamo tra le prime pagine del Manifesto della cura – Per una politica della interdipendenza a cura di The care collective, Edizioni Alegre.
Ma quale accezione della cura?
Innanzitutto, partiamo dai concetti di Joan Tronto (Caring democracy 2013) ‘prendersi cura di’ (caring for), che si riferisce agli aspetti più concreti della cura, ‘interessarsi a’ (caring about), che descrive il nostro investimento emotivo e il nostro attaccamento agli altri, e ‘prendersi cura con’ (caring with) che si riferisce a come ci mobilitiamo sul piano politico per trasformare il nostro mondo.
Più vicino alle nostre vite ciascuno e ciascuna di noi sperimenta la dimensione della cura. Ma lo abbiamo per lo più subito come qualcosa di inevitabilmente già disciplinato, regolamentato, distribuito, immutabile. Nonostante il passare del tempo l’universo della cura è rimasto per lo più un carico femminile. Anche se alcune teorizzazioni hanno fatto dei passi in avanti.
Nell’efficace formulazione di Nancy Fraser il tradizionale modello del maschio breadwinner è stato sostituito con un più recente modello di breadwinner universale, in cui entrambi i genitori sono incoraggiati o addirittura costretti a un eccesso di lavoro full time. Fraser parla di universal caregiver, che dovrebbe valorizzare sia la cura parentale, sia le pari opportunità nel mondo del lavoro salariato. Ma in tutto questo viene aggiunto il concetto di cura universale: l’ideale di una società in cui la cura sia al centro di ogni aspetto della vita e dove tutti siamo responsabili in maniera collettiva del lavoro di cura, a livello quotidiano, comunitario e del mondo intero.
Non possiamo però dimenticare che in alcune fasi della vita, come la primissima infanzia, c’è un bisogno di cure primarie che non possono essere redistribuite ad altri rispetto alle madri, ma si può sostenere le madri affinché non siano schiacciate da tutti i cambiamenti che comporta la maternità. In alcuni periodi non possiamo pensare a un welfare sostitutivo totale e pubblico, ci vogliono forme ad hoc.
L’Italia si colloca al 14° posto nell’UE nell’indice sull’uguaglianza di genere 2024 dell’EIGE che riguarda il 2022, con un punteggio di 69,2 punti su 100 (1,8 punti al di sotto del punteggio medio UE).
Le disuguaglianze di genere sono particolarmente pronunciate nel dominio del lavoro. Dal 2010, l’Italia si è costantemente classificata ultima tra tutti gli Stati membri in questo dominio. All’interno del dominio del lavoro, l’Italia si classifica al livello più basso (27°) nel sottodominio della partecipazione, con un punteggio di 70,0 punti, con un aumento di 1,1 punti dal 2021. Tuttavia, il punteggio più basso del paese (61,4 punti) è nel sottodominio della segregazione e della qualità del lavoro, che classifica l’Italia al 22° posto nell’UE per quanto riguarda questo sottodominio.
Nel 2022, il 72% delle donne era responsabile della maggior parte delle faccende domestiche quotidiane (cucinare e/o lavori domestici non retribuiti), rispetto a solo il 34% degli uomini, con un conseguente divario di genere del 38%. Nonostante una diminuzione del 27% del divario dal 2007, le donne svolgono ancora la maggior parte dei lavori domestici non retribuiti. Il divario di genere nella distribuzione delle faccende domestiche è elevato (a scapito delle donne) indipendentemente dal tipo di famiglia, dal livello di istruzione, dal paese di nascita o dalle condizioni di disabilità.
Un dato assai preoccupante. Come è messa l’Italia nel Global Gender gap report 2024 del Wef? Nel 2022 eravamo al 63esimo posto in classifica, ora siamo all’87esimo. Evidentemente qualcosa non quadra a livello di politiche di genere, soprattutto se osserviamo la partecipazione economica e le opportunità di lavoro.
Risolvere la crisi della cura non significa agire solo su chi se ne occupa ma ripensare la cura come un valore universale e fondante della società. Se l’obiettivo è semplicemente quello di redistribuire la cura o riequilibrarne il carico, il rischio è che nulla cambi veramente. Ci vuole qualcosa di più profondo e radicale.
Il Manifesto parte dal fatto che il mondo è incurante e nemmeno una pandemia è riuscita a scuoterlo e a risvegliarlo dall’idea che ci sarà sempre un Altro su cui scaricare addosso la responsabilità della cura. Lo si è fatto con il personale sanitario, lo si fa quotidianamente con le donne, le madri, le lavoratrici domestiche pagate una miseria e non tutelate. Finché non si riconoscerà la natura sistemica della cura la sua importanza cruciale per le nostre vite e ancor più finché non sarà chiara l’interdipendenza che unisce tutti in un destino comune, la crisi della cura non verrà risolta.
Quindi un’economia della cura andrebbe intesa come ‘tutto ciò che ci permette di prenderci cura l’uno dell’altra, incentrata sui nostri bisogni e le modalità con cui vengono soddisfatti, non solo attraverso gli scambi di mercato, ma anche all’interno delle famiglie, della comunità, dello stato e del mondo’. Occorre porre dei limiti all’espansione del mercato ad ogni attività economica umana (per approfondimenti vedi p. 81 J. K. Gibson-Graham, Ann Pettifor, Nancy Folbre, Riane Eisler, Kate Raworth e il Women’s Budget group).
Occorre guardare in faccia le dinamiche di sfruttamento che reggono il nostro sistema e metterle in discussione. ‘Non si può pretendere che le istituzioni si facciano carico della cura di noi e del pianeta senza essere noi per prime e per primi a prenderci cura gli uni degli altri. Né si può affidare la cura alle logiche del profitto’, lasciando che diventi un mero valore economico e individualistico. Per questo sarebbe necessario attuare una pratica di cura quotidiana, ‘ di prossimità, autorganizzata, realmente inclusiva e che parta dal basso’. Mettere la cura al centro di tutte le scelte e pratiche politiche, senza avere quell’atteggiamento di occuparcene solo in emergenza o parzialmente. Mai come in questo caso il personale è politico. Radicale e rivoluzionario.