Secondo calcoli recenti, hanno subito aggressioni online più di un terzo delle donne del pianeta. La cyberviolenza ha una forte declinazione di genere, secondo l’ONU si stima che il 95% degli abusi sia contro le donne.
E se dalle statistiche sulla dimensione del fenomeno passiamo a quelle che ne documentano gli effetti, il quadro mantiene tinte ugualmente fosche. Tra le tante indagini, ve ne cito giusto una fresca fresca di pubblicazione, realizzata dalla rivista The Economist. Ebbene: questa ricerca ci dice che quasi tre quarti delle vittime di violenza digitale censite sono arrivate a temere per la propria incolumità fisica. E ci avverte pure che il 35 per cento di loro ha riportato danni alla salute mentale, mentre il 7 per cento ha perso il lavoro o deciso di cambiarlo (probabilmente perché quello precedente richiedeva una costante presenza online).
La violenza online si trasforma in un mezzo per zittire le donne e per sabotare le loro vite e le loro carriere.
Risultato: le principali piattaforme sono state costrette a correre ai ripari. Si sono decise, per dirne una, ad adottare apposite linee guida per vietare minacce, molestie e discorso d’odio al loro interno. E hanno sottoscritto con la Commissione europea un Codice di condotta contro l’incitamento all’odio illegale in rete – iniziativa pubblicizzata con gran pompa dai loro uffici stampa, che al momento coinvolge Facebook/Meta, X, YouTube e TikTok.
Questa situazione viene attentamente analizzata nel saggio La rete non ci salverà di Lilia Giugni che andrebbe letto per scoprire le connessioni tra capitalismo digitale, patriarcato, tecnologia e discriminazioni di genere.
Molestie e minacce online, pornografia non consensuale (laddove sappiamo che in questo settore non c’è mai rispetto per le donne), informazioni personali condivise senza permesso. La violenza digitale è molto diffusa e invasiva. Anche le lavoratrici del tech subiscono abusi e discriminazioni. Pregiudizi sessisti dell’intelligenza artificiale. Catene di discriminazioni e abusi anche nella catena di produzione dei gadget digitali tecnologici.
Costruito su 5 anni di ricerche è un libro ricco di tutta la passione di una ricercatrice e attivista femminista. Storie come quelle di Carolina Picchio e Tiziana Cantone sono diventate il simbolo di una lotta agli abusi online e ai rischi di un uso non corretto delle piattaforme social. Ma ultimamente si sta di nuovo facendo vivo il fenomeno dell’odio in rete, con istigazioni al suicidio che si riaffacciano sulla scena della cronaca quotidiana.
Nonostante siano state introdotte nuove legislazioni che mirano a inquadrare e – si spera – a prevenire la pornografia non consensuale e il cyberbullismo (quelle italiane sono state caldeggiate fortemente proprio dalla madre di Tiziana e dal padre di Carolina), la situazione reale è ancora lontana dall’essere migliorata.
Il web non può essere considerato zona franca. Ne è convinta l’ex presidente della Camera, oggi deputata del Partito democratico, Laura Boldrini. Lei che, negli anni, è stata bersaglio di campagne d’odio social, oggi mette in guardia dalla sottovalutazione di un fenomeno che può «distruggere la vita delle persone». «Ci sono ragazze che si sono suicidate – dice – dopo aver subito gogna, non si può abbassare la guardia».
A riaprire il dibattito sul fenomeno è il caso Seymandi e la decisione del pm di archiviare le denunce agli haters perché – si legge nelle motivazioni – nei social «non pare più esigibile che la critica ai fatti privati delle persone si esprima sempre con toni misurati e eleganti. La progressiva diffusione di circostanze attinenti la vita privata e la diffusione dei social ha reso comune l’abitudine ai commenti, anche con toni robusti, sarcastici, polemici e inurbani». La vittima ha chiesto l’imputazione coatta.
Boldrini ha commentato così i fatti «Siamo davanti a una decisione che manda un messaggio sbagliato. Così si dà il via libera alla barbarie e alla sopraffazione. Uno stato di diritto non dovrebbe mai accettare l’idea che gli insulti, le offese, le minacce, possano essere sdoganate. E che la reputazione delle persone possa essere schiacciata senza doverne rispondere. Penso sia un errore clamoroso, il web non può essere una zona franca».
Il rischio è quello di un “lasciapassare” all’insulto in rete?«Questa decisione non tiene in alcun conto che le campagne d’odio possono distruggere le vite delle persone. E indurre a depressione, isolamento e anche al suicidio. Abbiamo visto ragazze non reggere al peso di essere diventate vittime di una gogna sui social network. E non tener conto di questo è davvero pericoloso. Non può esistere un doppio standard tra online e offline».
Ci sono ragazze che subiscono questi atti di vera e propria violenza, costrette a cambiare casa e abitudini di vita. Fino a non poterne più.
La violenza che subiscono le donne in rete non può essere derubricata e vanno attuati tutti gli strumenti per perseguirla e limitarla il più possibile.
Grazie al lavoro di tante esperte e attiviste come Lilia Giugni possiamo guardare l’industria tech per la sua vera natura, di come la tecnologia acutizzi le ingiustizie di genere. Un intero sistema economico se ne sta approfittando, facendo finta di intervenire e di voler porre fine a certe pratiche. C’è nel libro anche un’analisi politica su chi ci governa e dovrebbe intervenire per rimediare a queste problematiche, ma per una serie di motivi non fa che alimentarle.
Se ne parla poco e non c’è una reale percezione della gravità del fenomeno. Ve lo consiglio perché è un testo scritto con pieno trasporto emotivo e vi traspare tutto l’impegno e la volontà di cambiamento. Un libro divulgativo con tematiche da affrontare in classe, per poter aprire gli occhi su un sistema nel quale tutti e tutte siamo immersi/e. Ricco di spunti pratici e di risorse per poter affrontare le sfide di una dimensione online fortemente tossica.
La rivoluzione digitale ha spianato la strada a forme di abuso nuove e diverse, e con marcati aspetti di genere. E la seconda è che, quando le donne si ribellano a questo stato di cose, piattaforme miliardarie tendono spesso a reagire mettendo una pezza là dove momentaneamente si concentra l’attenzione di media e società civile, anche a costo di causare ulteriori sofferenze e violare ulteriori diritti.
C’è, però, un altro aspetto che ci tengo a sottolineare fin da adesso. E riguarda il motivo per cui, a mio parere, non dovremmo stupirci se nell’odierno capitalismo digitale per tutelare alcune donne si abbia l’impressione di doverne sacrificare delle altre. Questa dinamica, tutt’altro che nuova, è in realtà tipica di tutte le incarnazioni precedenti della logica capitalista, da sempre legata a doppio filo a quella patriarcale. Faccio un esempio un po’ scontato ma significativo. Per secoli, l’economia globale si è fondata sul lavoro di cura non retribuito delle donne, cui spettava il compito di crescere accudire la forza lavoro del futuro. Quando, a più riprese, le donne hanno combattuto per l’indipendenza economica e per l’accesso paritario a vari settori professionali, soddisfare pienamente queste richieste avrebbe reso necessario un autentico rivoluzionamento del nostro apparato economico. Si sarebbe dovuta ripensare la riallocazione delle attività di cura. Si sarebbe dovuto ridurre l’orario di lavoro di tutte e di tutti, e si sarebbe dovuto investire nel welfare e nel sostegno alle famiglie. Invece, per sopravvivere e continuare a produrre profitto, il sistema ha teso alle donne trappole insidiose, creando tra loro ulteriori gerarchie, Si e dunque chiesto alle nuove ‘professioniste emancipate di sobbarcarsi altre ore di lavoro sia a casa sia fuori. E si è favorita la riallocazione delle loro mansioni di cura a donne meno privilegiate, spesso migranti e non occidentali, come le badanti e lavoratrici domestiche che riempiono le nostre città. La vecchia tattica del “‘divide et impera” è una delle più efficaci di tutti i tempi. Un meccanismo molto simile si ripete pedissequamente ai giorni nostri, in un’economia ridisegnata dalle nuove tecnologie. E il problema è che questo circolo vizioso tende a riproporsi senza sosta.
Sul mobbing di genere nel tech non abbiamo dati nazionali. Sottorappresentazione allo stato puro, se non lo vedo non esiste.
Ne esistono, però, di orripilanti sulle molestie in più generici luoghi di lavoro. Come quelli del sondaggio condotto nel 2021 dall’organizzazione Weworld secondo la quale circa sette donne su dieci censite sono state importunate o aggredite sul lavoro.) Mi Pare il caso, quindi, di dirlo una volta e per sempre C’è un sostrato misogino (oltre che razzista, omo-lesbo- trans-fobico e in genere allergico all’inclusione e all’uguaglianza) che permea l’industria tech nel suo complesso, e che non è affatto confinato a singoli luoghi di lavoro. Un sostrato direttamente collegato allo sviluppo di tecnologie discutibili, soprattutto nel campo dell’intelligenza artificiale.
L’idea di reimpadronirsi della tecnologia per far saltare diseguaglianze e ingiustizie risale a Shulamith Firestone, una scrittrice e attivista canadese che negli anni 60 e 70 si domandava se gli sviluppi digitali non potessero, in futuro, attenuare le disparità di genere. Una ventina d’anni dopo il dibattito venne rilanciato dalla filosofa americana Donna Haraway, grazie soprattutto alla pubblicazione di un influentissimo saggio intitolato Manifesto cyborg, considerato la pietra fondante del pensiero ” cyber femminista”. Semplificando all’osso, il Manifesto ruotava attorno a un’argomentazione principale. Pur ammettendo come, storicamente, la tecnologia fosse figlia di logiche oppresive, auspicava che il mezzo digitale potesse essere convertito a uno spirito diverso, aiutare a rendere le differenze tra uomo e donna un po’ più fluide c un po’ meno divisive, Tanto entusiasmo vi pare un filo eccessivo? È difficile non pensare che tali previsioni oggi appaiano eccessivamente ottimistiche.
Lilia Giugni fornisce anche delle linee guida per cambiare il sistema, a partire da riforme legislative mirate e che migliorino quanto già oggi previsto, a forme di regolamentazione e trasparenza degli algoritmi, a democratizzare i luoghi dove si decide la tecnologia, a prendere sul serio le molestie sui luoghi di lavoro e il gap digitale di genere, a riconoscere e difendere i diritti delle lavoratrici di aziende tecnologiche, a pretendere catene di approvvigionamento di materie prime più sostenibili e pulite, a educare ed educarci sul genere e tecnologia (formazione digitale, su diritti e responsabilità digitali). Se i pm chiedono l’archiviazione delle denunce, si sta sottovalutando la portata dei toni violenti e delle conseguenze. Un’emergenza sociale che riguarda e riguarderà sempre più persone, come dice Nicoletta Verna in un recente articolo apparso su La Stampa.
Gli effetti negativi sono concreti: sulla salute e sull’economia. Secondo uno studio del Parlamento europeo, Combating Gender based Violence: Cyber Violence, i costi della cyber violenza si assestano tra i 49 e 89 milioni di euro, tra spese legali, sanitarie ecc. Se i social sono sempre più lo specchio della vita reale perché non dovremmo pretendere il rispetto di regole e diritti? Ci sono i mezzi per verificare e perseguire chi commette reati online, basta considerarlo necessario e una priorità. I diritti delle donne non meritano il giusto impegno della magistratura e delle forze dell’ordine? Le piattaforme che si sono dotate di moderatori/trici purtroppo non sempre hanno risolto i problemi e spesso i contenuti violenti e misogini hanno ancora piena cittadinanza.
A noi anche il compito di non restare indifferenti e segnalare ogni abuso e violenza, diffondendo consapevolezza e diritti.
Affinché non se ne parli più solo come di una piaga da curare, ma si faccia veramente qualcosa per interrompere il flusso di violenza sui social e nelle realtà virtuali. La polizia britannica a inizio anno ha indagato sul caso di una minorenne che sarebbe stata sottoposta a uno stupro di gruppo virtuale in un gioco di Meta, come riporta il Guardian. “Il linguaggio allegro con cui le aziende tecnologiche descrivono le loro piattaforme è spesso in netto contrasto con le oscure possibilità in agguato al loro interno. Meta, ad esempio, descrive il metaverso come “la prossima evoluzione nella connessione sociale e il successore di Internet mobile”, un luogo in cui “la realtà virtuale ti consente di esplorare nuovi mondi ed esperienze condivise “.
Ma per una giovane ragazza nel Regno Unito di recente, quella “esperienza condivisa” è stata un presunto stupro di gruppo.” “C’è un impatto emotivo e psicologico sulla vittima che è più a lungo termine di qualsiasi ferita fisica”. Inoltre, la qualità immersiva dell’esperienza del metaverso rende ancora più difficile per un bambino, in particolare, distinguere tra ciò che è reale e ciò che è finzione. Questa nuova frontiera non è assolutamente contemplata dalla nostra legislazione nazionale. Come proteggersi?
Il patriarcato è vivo e vegeto nei gruppi Telegram e sui social, non è per nulla scomparso quel miasma fatto di misoginia, dominio e possesso. E’ semplicemente sbarcato su altri lidi, mantenendo la stessa ostilità e tossicità di sempre. Non è l’anonimato che li protegge, ma la diffusa mentalità dei patriarchi che si proteggono l’uno con l’altro. Ed è su questo che occorre intervenire, con quella educazione e quella prevenzione che tutti stiamo aspettando nelle scuole e nella società intera.