Dopo vent’anni come selezionatrice del personale, Roberta Zantedeschi sente che vuole (avere e dare) di più. Nel frattempo, ha sviluppato nuove competenze e desidera affiancare l’attività di recruiter e formatrice con quella di coach e consulente. E così nel 2020, anno in cui il mondo affronta un’emergenza epocale, lei vive la sua piccola rivoluzione. Oggi lavora in proprio, con l’obiettivo di aiutare le persone e le azienda a comunicare bene per lavorare meglio e coltivare relazioni consapevoli. È una facilitatrice, consulente e coach, su tematiche manageriali. Ha a cuore il lavoro, il linguaggio e le donne.
L’abbiamo incontrata.
Ti definisci anche una HR Business Writer. Quanto è importante la scrittura nel mondo del lavoro?
Importantissima. In passato, ho curato un blog di cucina. Ho seguito corsi di scrittura. A quel punto, ho iniziato a leggere i cv che ricevevo con occhi nuovi. Si tratta di un documento che parla di noi, in cui mettiamo tutta la nostra vita, ma non è scritto per noi. Per renderlo efficace, dobbiamo compilarlo pensando a chi lo legge. Facilitare la comprensione e mettere in evidenza le parti più rilevanti rispetto alla posizione per cui ci candidiamo, come le esperienze effettuate nello stesso settore, per esempio. L’incipit è fondamentale, dobbiamo subito attirare l’attenzione. Anziché cominciare con “curriculum di…” meglio scrivere nome e cognome, seguiti dal proprio job title.
Il tuo libro “Comunicare e scrivere per trovare lavoro” (Hoepli) è una miniera di consigli pratici. Vuoi darcene qualcun altro?
Uno, in particolare, di base: prima di progettare un qualsiasi messaggio, dobbiamo sempre sapere che cosa vogliamo dire e ciò che vogliamo ottenere. Solo in questo modo sapremo renderci rilevanti. Questo vale quando cerchiamo lavoro, quando ci occupiamo del nostro personal branding e quando scriviamo sui social. Tornando al curriculum, consiglio sempre di inserire all’inizio poche righe che ci presentano in sintesi: esperienze, skill, ambizioni.
Chi ti segue sui social, e in particolare su LinkedIn dove sei una Top Voice, conosce il tuo impegno in favore del linguaggio inclusivo. Raccontaci…
La parola chiave è una: rispetto. Il linguaggio non inclusivo è quello che offende, svilisce, risulta intimidatorio. Faccio un esempio. Per congratularci dei successi professionali di un collega con una disabilità evidente, potremmo dirgli: “Bravissimo, sai che proprio non sembra che tu abbia questa disabilità”. Noi pensiamo di riconoscergli un valore e invece il sottotesto che trasmettiamo è che la disabilità sarebbe meglio non farla vedere.
Esempi di linguaggio poco inclusivo li troviamo anche nelle offerte di lavoro.
Immaginiamo di leggere che un’azienda cerca “una mente fresca che porti una ventata di novità”. Quanta voglia avrebbe di rispondere un 50enne? L’età, quando è connotata, sottintende un giudizio. Invece che rivolgersi a candidati giovani, è meglio parlare di fasce d’età alta o bassa, espressione meno connotativa. Allo stesso modo, tipologie di contratto particolari, come l’apprendistato, giustificano la ricerca di candidati under trenta.
Un nodo centrale resta il mancato rispetto della frase inserita per legge: “l’offerta si ritiene riferita a entrambi i sessi”.
Anche quando è rispettata, è una dicitura superata. Il vero problema, però, è quando ci imbattiamo in offerte declinate solo al maschile. Un esempio? La ricerca di progettisti meccanici. La giustificazione data è che questo lavoro è svolto solo dagli uomini. L’obiezione con cui rispondere è che dobbiamo mettere le bambine di oggi nelle condizioni di immaginare di poter diventare, un giorno, progettiste meccaniche. Solo così avremo, in futuro, donne con queste competenze. È anche una questione di educazione, da qui tutta la battaglia perché sempre più ragazze studino materie Stem (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica, Ndr). Dobbiamo essere consapevoli che noi, con le parole, contribuiamo a modificare la percezione delle persone e ne modifichiamo i comportamenti e, di conseguenza, modifichiamo la realtà.
Quanto è importante fare squadra con altre donne?
Per me il concetto di sorellanza è alla base di tutto. Collaborare con altre donne mi viene naturale. È in questa ottica che, oltre un anno fa, con Pamela Serena Nerattini e Fabiana Palù, abbiamo dato vita a Purple Dot. Da one person a one brand. Unite possiamo generare un impatto più ampio e più profondo, fare squadra, imparare di più e insieme e… divertirci! Poi ognuna di noi continua a portare avanti anche la sua attività autonoma.
Sei anche una madre single, un’appassionata di cucina e una montanara. Come conciliare vita privata e vita professionale?
Come molti, ho attraversato fasi diversi. Sono andata dalla fusione totale dei due mondi, alla decisione di mettere dei paletti. Adesso ho capito l’importanza delle vie di mezzo e dei confini. Ci sono dei momenti in cui spengo tutto e sto con i miei bambini, di otto e undici anni. E altri momenti in cui mi chiudo in studio e loro sanno che non possono entrare. Allo stesso modo, però, lo sfondo delle mie call è un armadio tappezzato con i loro disegni. Ai miei interlocutori, dico che i miei figli tendenzialmente non dovrebbero entrare mentre siamo in call, ma se entrano… pazienza! Loro, per me, sono sempre un valore aggiunto, mai un limite. Li aggiorno sulle novità importanti del mio lavoro e ogni tanto li porto con me. Per il resto, cerchiamo di prenderci spazi solo nostri. Nel lavoro porto non solo la mia professionalità, ma anche i miei figli e le mie passioni.
A che punto è il cammino delle donne?
Le donne sono avanti, dal punto di vista di competenze, consapevolezze, risorse. Sono perfettamente allineate con la direzione presa dal mondo del lavoro. Oggi non servono più competenze “muscolari”, la forza bruta è per fortuna caduta in disgrazia. Adesso serve la capacità di stare in relazione, cogliere tra le righe, prendersi cura, dialogare con l’IA. Il problema non è delle donne, ma di chi non ha ancora capito il loro ruolo e la loro importanza. Ma perché continuiamo a parlare alle donne? Dobbiamo parlare agli uomini, ai capi, a tutti quelli che ancora penalizzano le donne sul lavoro.