di Claudia Campese, CTzen
«Uccidere le donne riporta l’equilibrio»
Vittime di un presunto codice d’onore, sono almeno 150 le donne uccise dalla criminalità organizzata dal 1896 a oggi. Attentati, vendette, ritorsioni e induzioni al suicidio le cause principali. Le loro storie sono adesso raccolte in un dossier, curato dall’associazione romana antimafie daSud. La curatrice delle ricerche, Irene Cortese: «L’omicidio di una donna fa meno parlare. Ed è troppo spesso nascosto tra le righe della cronaca».
«Un dossier che serve innanzitutto a sfatare un’assurda credenza: che i clan, in virtù di un presunto codice d’onore, non uccidono le donne». Più di 150 storie, raccolte in ordine cronologico in una pubblicazione. Vittime, ognuna a suo modo, di una cultura che vede il femminile come oggetto del possesso, ottimo bersaglio per le vendette. Innocenti e non, colpevoli in qualche caso di aver alterato la trasmissione della cultura e dei modelli sociali delle mafie, a loro affidati, per amore dei figli o del compagno. Più raramente di se stesse. «Un elenco che non ha nessuna pretesa di essere esaustivo», sottolinea la curatrice delle ricerche, Irene Cortese, 33 anni, calabrese d’origine, un lavoro da educatrice per i bambini autistici.
Un dossier pubblicato dall’associazione romana antimafie daSud e curato dal collettivo di genere ospitato al suo interno. «Un giorno abbiamo pensato di intrecciate le due tematiche, il femminile e la criminalità organizzata – spiega Cortese – Anche perché ci siamo rese conto che è sempre complicato cercare notizie su donne vittime di mafia, troppo spesso nascoste tra le righe della cronaca».
Campania, Calabria e Sicilia le regioni principali a fare da scenario agli omicidi. Il primo, nel 1896, a Palermo. Quando Cosa Nostra ordina l’uccisione di Emanuela Sansone, 17 anni, figlia della bettoliera Giuseppa Di Sano. E’ una ritorsione: sulla madre di Emanuela, infatti, pende il sospetto di aver denunciato i mafiosi per la fabbricazione di banconote false. Una storia che è un doppio inizio: Giuseppa Di Sano, dopo l’omicidio della figlia, sarà infatti la prima donna a collaborare con la giustizia. Emanuela è il primo ma non certo l’ultimo esempio di una donna uccisa per vendetta. Come lei, Carmela Minniti, moglie del boss catanese Nitto Santapaola, uccisa nel 1995. «Abbiamo molto discusso tra di noi se inserirla o meno nel dossier, perché si tratta di una figura border line – spiega Cortese – Era la moglie di un boss e ha sempre difeso le scelte mafiose dei figli, ma la sua uccisione rientra nella dinamica di vendetta nei confronti del marito».
Di più, Carmela Minniti era una donna che contava all’interno dell’organizzazione criminale etnea. «La sua storia dimostra come, anche se organiche, le donne svolgono comunque un ruolo secondario e subordinato nelle mafie». Le donne boss di cui si inizia a fare un gran parlare. Figure che trovano più spazio grazie anche alla modificazione dei fenomeni criminali in un’ottica più imprenditoriale che di controllo del territorio. Ma che spesso «assumono il potere solo quando il marito o il padre sono latitanti o in carcere». Un aspetto che l’associazione si promette di indagare in un successivo dossier.
Ci sono poi le vittime casuali, in qualche caso investite dalle auto di scorta ai magistrati. «La mafia dovrà essere chiamata a rispondere del sacrificio di queste vittime innocenti», diceva Paolo Borsellino. E ancora le vittime ai margini della storia: come una mamma e le sue due bambine uccise nell’attentato mafioso di via dei Georgofili a Firenze. Ci sono poi le storie più note, come quella di Emanuela Setti Carraro, moglie del prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa, e Candida Morvillo, moglie del magistrato Giovanni Falcone, entrambe rimaste uccise negli attentati organizzati contro i mariti. «Ma la vicenda che forse mi ha colpito di più è quella di Rossella Casini» dice Cortese. Rossella, 21 anni, di Firenze, ha avuto la sfortuna di innamorarsi del ragazzo sbagliato: Francesco Frisina, studente originario di Palmi, la sua famiglia è coinvolta in una faida di ‘ndrangheta. Lui stesso si salva appena, dopo una pallottola in testa. Rossella, che poco sa di mafia, lo convince a parlare. Poi ritratta lei stessa, per salvarlo. E ci riesce: lui, rimasto in silenzio, è salvo. Ma lei verrà uccisa e fatta a pezzi nel 1981. «Chi non conosce le dinamiche mafiose – commenta Cortese – difficilmente si rende conto della pericolosità di quello che le accade».
Delitti d’onore e vendette, in cui l’uccisione delle donne viene utilizzata «per normalizzare una situazione in cui sono sfasati gli equilibri». O per alimentare il silenzio intorno a un altro omicidio: «All’inizio si dice sempre che è stata una questione di donne – aggiunge Cortese – Perché è ancora culturalmente più accettato rispetto a un omicidio di mafia. E, soprattutto, fa meno parlare». Metodi in cui le donne sono sempre un oggetto passivo ma che negli anni sono andati evolvendosi. Con la più moderna induzione al suicidio, quasi sempre per aver ingerito acido muriatico. «Quasi un rituale, così da quella bocca non potrà uscire più niente». Come è successo a Santa Boccafusca, detta Tita, moglie di Pantaleone Mancuso, boss della ‘ndrangheta di Limbaldi, in provincia di Vibo Valentia, e a Maria Concetta Cacciola, nipote del boss di Rosarno, ultima vittima dell’elenco. Fatte pentire di essersi pentite. Un atteggiamento pericoloso per le mafie, soprattutto quando ci sono di mezzo i figli. «L’educazione passa per le donne, sono loro a tramandare un codice mafioso – conclude Irene Cortese – La prima rivoluzione potrebbe partire proprio da questo».