di Maria Silvia Presepi
Vivere senza consumi…eliminando quelli non indispensabili.
Io ho vissuto gli anni del primo dopoguerra e, anche se molto piccola, ricordo bene. Ricordo un modo di vivere nei piccoli paesi (nelle città più grandi c’erano maggiori servizi e più possibilità di lavoro e di guadagno) fatto di piccole cose, cose semplici senza pretese, di serenità e anche di speranza in tempi migliori per i quali si stava lottando e lavorando seriamente. Ripensandoci oggi, mi sembrano rituali, tutto si ripeteva sia nell’arco della giornata che col passare delle stagioni.
Trovavo divertente andare alla fontana coi bottiglioni o col secchio di alluminio per attingere acqua potabile per la tavola e per la cucina, per il resto si attingeva a quella del pozzo, non potabile. Quant’era fresca d’estate l’acqua del pozzo del nostro cortile, sempre in ombra, e il babbo che vi calava il cocomero per rinfrescarlo prima di servirlo a tavola. La cosa allora mi sembrava molto strana, se gettavo un sassolino nel pozzo, questo sprofondava mentre il cocomero restava a galla per essere ripescato (non c’era il frigorifero, il burro stava immerso nell’acqua della sua ciotola e si conservava al fresco). Ma i nostri vicini non avevano un pozzo e allora aprimmo un passaggio nelle recinzioni confinanti perché potessero venire ad attingere l’acqua, liberamente, senza chiedere il permesso ogni volta. Da quei passaggi transitavano anche bambini, con bambole, giochi, litigi e rapide riconciliazioni, ma anche assaggi di pietanze, per dividere con gli altri il piacere di un piatto particolare o di un giorno di festa.
In cucina c’era un piccolo camino, serviva per cucinare e riscaldare, poi arrivò la ‘cucina economica’, ma si usava soprattutto d’inverno, andava a legna si potevano cucinare le vivande anche nel forno e riscaldava meglio del camino e poi si ricavavano le braci per riscaldare i letti, in casa non c’era altro riscaldamento e d’inverno il freddo, la nebbia e la neve si facevano sentire molto più di oggi. Ricordo che mancava la luce, si andava a letto presto accompagnati dai lumi a petrolio o dalla candela nella bugia di ottone, fino a quando la società elettrica (l’ Enel non esisteva allora e l’erogazione era del tutto privata) non trovò conveniente ripristinare le linee e gli allacciamenti.
Come non ricordare la carne la domenica, i cappelletti solo a Natale, tortelli a Pasqua e passatelli in primavera quando le uova costavano meno e si conservavano nella calce per i periodi di magra, quando anche la sfoglia si faceva solo con acqua e farina, senza le uova. Gli strozzapreti di allora, senza uova, strozzavano chiunque!! Rammento che passò un venditore ambulante di mercerie, aveva un bel fazzolettino da naso in batista con belle violette (allora non si usavano gli ‘usa e getta’) chiesi dieci lire (0,005 euro !) al mio nonno per comperarlo e comprare il gelato e lui dandomi il biglietto da 10 lire mi disse: attenta bambina perchè io con dieci lire ho comperato il vestito, le scarpe e il cappello! Il bucato veniva lavato a mano, gli elettrodomestici erano solo nei film americani, a stento in alcune case una radio, rarissimi i grammofoni, il cinema al sabato sera o di domenica, gli abiti sempre riciclati dai più grandi ai più piccoli, per i bambini più fortunati le vacanze in colonia, dal medico solo per urgente necessità, le strade polverose, chilometri a piedi o per i fortunati in bicicletta, scuola per i più fortunati, gli altri si fermavano alla terza elementare. E qui mi torna alla memoria il mio compagno di classe, Renzo, al quale i genitori, non potendo comperare una normale cartella, avevano dato una vecchia cassetta militare in ferro di color grigio verde, quelle delle nostre truppe.
Nelle grandi città forse qualcosa in più, ma la maggioranza degli italiani è quella descritta. L’abito e le scarpe nuove avevano un a scadenza fissa: Pasqua, l’estate, per i morti e il cappotto a Natale, dovevano durare. Gli abiti si allungavano e allargavano e le scarpe venivano risuolate, il tutto per uscire la domenica perché in casa si portavano gli abiti vecchi. Si comprava l’indispensabile e non si scartava nulla, si riciclava e riutilizzava. I rifiuti non erano un problema come oggi!
C’era però la speranza di riuscire, di ricostruire, di essere meno poveri, di farcela.
E’ inimmaginabile oggi la vita di allora. I contratti di lavoro prevedevano 52 ore settimanali e spesso si lavoravano quasi gratis anche la domenica mattina, ma nessuno si sarebbe suicidato per questo, si afferravano tutte le occasioni anche se mal pagate, nell’attesa e nella speranza di migliorare. C’era consapevolezza, voglia di andare avanti a tutti i costi, traguardi da raggiungere e anche più serenità.
Poi è arrivata la civiltà dei consumi. Consumare e spendere significava far lavorare fabbriche commercianti, il consumismo e l’usa e getta. Poi sono arrivate le macchine nei campi per fare i lavori faticosi al posto di contadini e mezzadri, poi nelle fabbriche le macchine hanno sostituito gli operai, poi l’elettronica che sta sostituendo gli impiegati.
Difficile pensare di tornare a vivere come 70 anni fa, anzi impossibile, ma qualcosa si deve fare. Ritorniamo a lavare i fazzoletti al posto dell’usa e getta? Non risolve ma si può fare. Abbassare il riscaldamento a 16-18 gradi ? Basta coprirsi un po’ di più, rinunciare all’aria condizionata? Si può. A piedi al posto dell’auto o in bus? Si può. E così tante altre cose. Si può vivere anche così, facendo sacrifici in attesa che si delinei l’uomo e lo stile di vita del terzo millennio che non sarà più lo stesso di prima. Tutto quanto è stato fatto finora ha mutato radicalmente sia la vita che il lavoro, quindi dovremo inevitabilmente riciclarci verso nuovi modi di lavorare, sempre più tecnologici, sempre meno soddisfacenti. Nell’attesa occorre vivere e per farlo adattarsi a quel si trova nell’attesa di migliorare. Non dimentichiamo però che per secoli il sistema delle colonie ha sfruttato territori ed esseri umani nel nome della superiore civiltà occidentale, ora quei territori e quei popoli vogliono stare a tavola accanto a noi e non accetteranno più i nostri soprusi. Questo significa che saranno inevitabili le omologazioni e le spartizioni a livelli sempre più bassi, fino a quando l’intero sistema mondiale non sarà livellato. Per far questo il nostro piatto sarà ancora destinato a scendere mentre la “nuova aristocrazia della moneta” sta cercando di impossessarsi del mondo.
Maria Silvia Presepi. Nata il 21 gennaio 1942 a Cesenatico, vive a Forlì. Diploma di ragioniera e perito commerciale nel 1960 Revisore contabile. Iscritta nell’albo degli esperti in materia fiscale, contabile e amministrazione del personale. Direttore Amministrativo della SPA Terme di Castrocaro fino al raggiungimento della pensione. Collabora con Studi professionali ed aziende nei settori contabile, fiscale e dei bilanci societari. Amante e grande conoscitrice di mostre e musei italiani.