di Marco Zincone
Alla riscoperta della musica popolare che dopo un periodo di dimenticanza sta tornando in auge…
Intervista a Margherita C. di Milano, una donna che ha molti anni di esperienza e un passato di ricercatrice e cantante di musica popolare.
Margherita, cosa fa una ricercatrice di musica?
Musica popolare! È importante distinguere perché quando ho iniziato, negli anni ‘70, in seguito al grande interesse che in quel periodo si era creato in Italia verso la cultura popolare in generale, ci trovavamo davanti a un mondo che dopo il boom economico stava perdendo le radici e i legami con il suo passato. C’erano ancora molte testimonianze sia come feste e tradizioni sia nel campo musicale, ancora vive e vissute, ma molti dei suoi “attori” erano ormai persone di una certa età ed era facile intuire che presto molto di questo enorme patrimonio sarebbe potuto scomparire per sempre. Questo è purtroppo il bello e il brutto della cultura “orale”: se non c’è nessuno che memorizzi, trasmetta e riviva musiche, tradizioni e riti – o nessuno che le registri, tutto rischia di perdersi.
Che tipo di musica era più maschile o femminile?
Era musica di tutti: gli uomini cantavano certe cose, soprattutto nelle osterie, le donne altre, durante i lavori condivisi, in campagna o in città – o durante l’accudimento dei figli – per esempio, l’enorme quantità di ninna-nanne del mondo è molto importante: l’opportunità di parlare con un essere vivente, che però non può né capire né rispondere, permette di raccontare qualcosa di vissuto profondamente e molto sentito. Per esempio, ci sono anche ninne-nanne in cui la madre, un po’ per scaramanzia e un po’ per disperazione dice al bambino “ninna nanna che tu muoia” o “che ti porti via il boia”, che ti porti il lupo o simili. È un fenomeno piuttosto noto e frequente.
Ma quando mi hai parlato del tuo passato hai sentito il bisogno di precisare “femminile ma non femminista”
Certo: quello era il periodo d’oro del femminismo, con le cui ispirazioni io ero molto concorde, ma cercavo di andare oltre, proponendo spettacoli che parlassero di musica popolare femminile in un senso più ampio. Voglio dire che, dopo aver eseguito o ascoltato 50 volte l’anno “son la mondina, son la sfruttata” credo che il concetto sia chiaro e direi che si sente l’esigenza di sapere qualcosa di più di ciò che la musica popolare può esprimere per farci capire aspetti del mondo e dei secoli passati.
Per esempio, c’è una canzone in cui la solita sposa malcontenta del proprio matrimonio racconta di essersi sposata con un carrettiere che l’aveva fatta innamorare e di trovarsi ora completamente disillusa. Alla fine dice “la rovina l’è stata la mia mamma, nel darmi troppo la libertà” e così ribadisce il ruolo della figlia che deve cercare di giocare troppo con i giovanotti e della madre che deve controllarla e cercare di impedirglielo.
Questo dà l’idea di come il modo di affrontare e di vivere la vita venisse trasmesso di madre in figlia (effettivamente, “Di madre in figlia” era il titolo del mio primo spettacolo). Da qui a “Sebben che siamo donne” (che in origine era una canzone di mondine della fine dell’Ottocento – e più tardi è diventata un inno del femminismo politico) c’era molta strada da fare e rendersene conto sottolinea l’importanza della parola sebben.
Se vogliamo esplorare qualcosa di più elaborato e “alto” dal punto di vista dei sentimenti e dei sottotesti, mi viene in mente una canzone – tra le moltissime di origine provenzale che venivano ancora cantate nel Piemonte – che racconta in modo molto poetico la storia di un infanticidio.
La colpevole dell’infanticidio è una ragazza molto giovane, che ha confessato alla madre che “la veste di velluto non poteva più abbottonarla e la cinturina d’oro non poteva più incrociarla” e che quindi vuole essere sposata. La madre rifiuta perché lei era la seconda figlia e quindi avrebbe dovuto aspettare le nozze della prima. Ma dopo 15 giorni la creatura nasce e la neo-mamma va sulla riva del fiume e mentre “con la bocca le dà un bacio e con la mano la butta nell’onda”. Nella strofa seguente incontra un pescatore che le chiede perché l’acqua è così increspata e lei risponde “ho visto un pesce così grosso che ho voluto buttargli una pietra”. Il pescatore si butta in acqua e ritira fuori il neonato.
Il padre, a suo modo un onest’uomo, si indigna: quando gli dicono che si tratta di sua figlia, risponde “figlia Isabella non è che un’anima di questo mondo”, ma la manderà a morte, seguendo l’ottica molto maschile di un uomo probo. Ma “mentre che la mandavano a la morte, tutte le dame andavano a consolarla”: una risposta molto femminile e molto emotiva a un dramma comprensibile e vissuto da molte donne.
Ho voluto raccontare così a lungo questo testo perché dà l’idea di come la cultura popolare non sia povera di sentimenti e di racconti, ma sappia esprimere dolori profondi e solidarietà umana.
Raccontami qualcosa di più sulla tua esperienza con gli spettacoli.
Il circuito era soprattutto quello dei festival politici e delle manifestazioni in occasione di ricorrenze come il 25 aprile o l’8 marzo. Certo, a volte si aspettavano da me la riproduzione dei soliti canti di lotta ma, visto che c’erano già tante ragazze che cantavano queste cose, io mi sono creata una nicchia di maggiore approfondimento e devo dire che il riscontro è stato molto positivo. Poi magari, a fine serata, dopo aver approfondito, e con un bicchiere di vino davanti, “Sebben che siamo donne” la cantavamo comunque.
E com’era il pubblico? in maggioranza femminile o misto?
Difficile dirlo: per allora era abbastanza femminile, adesso diremmo misto. Qualche volta ho fatto ricerca anche parlando con signore del pubblico che mi raccontavano le loro esperienze. Per esempio: ricordo una signora pugliese che abitava nell’hinterland di Milano (quindi una realtà molto diversa dalla sua), che mi cantò una versione bellissima della “bella alla fontana”, che non avevo mai sentito prima, e che, quando le chiesi se potevamo rivederci perché mi cantasse altre canzoni, magari da lei, mi rispose “la casa non si presta”. E io non me la sono sentita di impormi come ospite, ma la sua versione l’ho cantata in giro un po’ per tutta Italia, anche se la mia pronuncia barese lasciava molto a desiderare.
Pensi che le cose adesso siano diverse?
Si’, c’è un revival fortissimo e ci sono gruppi che stanno facendo cose molto interessanti
E dove si possono ascoltare?
A Milano ci sono alcuni cori, tra cui in particolare “Voci di mezzo”. Sono molto fedeli agli originali ma si permettono anche divagazioni e contatti con la musica popolare francese e spagnola (o meglio Occitana: l’antica area provenzale). Ma in ogni città stanno sorgendo nuovi gruppi. Il pericolo è la contaminazione con musiche che non hanno nulla a che fare, secondo me, ma molti non sono d’accordo.
Marco Zincone
Milanese del1960, ha vissuto a Milano quasi 38 anni, poi si è trasferito a Barcellona, per amore verso la città e per cercare un’atmosfera più aperta di quella che respirava in Italia. Laureato in economia, ha sempre lavorato in grosse case editrici, prima d’arte poi di libri geografici e guide turistiche, curando le relazioni internazionali. In Spagna ha lavorato come agente internazionale e poi come traduttore.