La decisione era ormai presa: senza velo, non sarebbe più andata a scuola.
Era un’adolescente, ma con una grande determinazione e idee molto chiare. L’improvviso incontro con la religione islamica l’aveva profondamente cambiata. Le aveva insomma fatto intuire che l’origine dell’oppressione femminile a cui assisteva costantemente non andava ricercata nell’Islam come credo discriminatorio ma derivava invece in maniera diretta da una politica sociale rigidamente. maschilista caratterizzata da un’eccessiva libertà d’azione che era necessario contrastare con ogni mezzo.
Da quel lontano giorno risalente a più di 25 anni fa Eva Abu Halaweh non si è mai fermata. Oggi è uno stimato avvocato di Amman, in Giordania.
L’eco della battaglia per il riconoscimento dei diritti femminili di cui si è fatta portavoce riecheggia ovunque, al punto che Michelle Obama e Hillary Clinton l’hanno recentemente – e non a caso – definita la donna di maggior coraggio del Medio Oriente.
La sua è infatti una lotta quotidiana ( in un certo senso anche pericolosa) contro le ingiustizie perpetrate ai danni delle donne e testimoniate dai numerosi faldoni chiusi a chiave nella cassaforte del suo ufficio. Sono dossier che parlano di abusi familiari e di soprusi giuridici. Raccontano storie di sofferenza ed emarginazione e rimandano al calvario di molte donne che, con il pretesto di volerle difendere dalla violenza, il regime ha in realtà condannato al carcere sine die.
In due anni Eva è riuscita a rendere la libertà a 36 di loro, ma non basta, ovviamente.
Quello della carcerazione preventiva a scapito di mogli, sorelle, madri maltrattate dai rispettivi uomini è purtroppo una pratica assai diffusa in Giordania (oltre al danno, la beffa, come si suol dire..), un paese in cui le istituzioni – essendo il sesso severamente proibito in assenza di un comprovato vincolo matrimoniale – riconoscono agli omicidi il pieno diritto di discolparsi facendo appello al delitto d’onore e nei casi peggiori infliggono pene detentive non superiori ai sei mesi (anche se spesso i condannati non arrivano nemmeno a scorgere la prigione da lontano).
Eppure, come tende a puntualizzare la stessa Eva, “I delitti d’onore non hanno niente a che vedere con l’Islam. Li abbiamo ereditati dai francesi”, prosegue. “Il loro antico codice penale permetteva ai soldati di rifarsi una vita: se una volta tornati a casa dal fronte scoprivano che la moglie li aveva traditi se ne liberavano senza problemi”.
Tuttavia ciò non è sufficiente per restitiure dignità e vita alle vittime della giurisdizione attualemnte vigente in terra giordana, un groviglio di codici e cavilli ancora troppo pesantemente condizionati dalla sharìa, la flegge islamica: una legge che non è disposta a concedere alle donne nemmeno il beneficio della giustizia.
Il fatto che chi ha il coraggio di denunciare i propri carnefici debba subire l’onta della punizione (talvolta anche solo simbolica, come avviene ad esempio in Italia nei casi di manifesta carenza di giustizia) è ormai luogo comune in molti luoghi del mondo. Questa tuttavia non è e non deve tradursi in un alibi per sottovalutare la gravità di simili situazioni che – sebbene riescano a imporsi all’attenzione generale soltanto saltuariamente – appartengono e purtroppo continuano a contraddistinguere la quotidianità femminile nella sua totalità..