foto di Paola Cimmino
di Cinzia Ficco da http://www.tipitosti.com
Mina: “Non volevo che morisse, ma l’ho lasciato andare”
Uno sguardo dolce. E tanta serenità. Quella che spesso ti deriva da una profonda sofferenza. Dice di non sentirsi tosta, ma solo tanto normale. Eppure, Mina Welby, nata a San Candido, in provincia di Bolzano nel ‘37, di coraggio ne ha avuto tanto. Il 20 dicembre del 2006 ha perso suo marito Piergiorgio, affetto da distrofia muscolare, da quando aveva 16 anni. Quel giorno, suo marito, è morto, aiutato da un medico anestesista che, dopo averlo sedato, gli ha staccato il respiratore.
Ho avuto il piacere di incontrare questa donna a Putignano, nel Barese. Abbiamo fatto una chiacchierata, che vi propongo.
Guardandola e ascoltandola, balza agli occhi, senza alcuna retorica, tanta tranquillità. Come ha fatto a ritrovare equilibrio, a non sprofondare nella disperazione, dopo quel dicembre di sei anni fa?
Credo che alla mia età sia giusto che abbia trovato il senso della vita. Fin da piccola avevo avuto l’esempio dei miei genitori su come affrontare malattia, dispiaceri e la perdita di chi si ama. Cose che vediamo fanno tutti. Non sono una eccezione.
Cosa è successo in questi sei anni e quale è stato il periodo più difficile?
Fin dall’inizio ho cercato di indovinare, come già avevo fatto durante la nostra vita insieme, cosa avrebbe fatto piacere a Piergiorgio in tutti gli istanti, che sono seguiti a quel dicembre. Molto difficile è stato vedere cambiare in modo totale la giornata, che prima era scandita da precisi orari, in cui si facevano determinate cose. Parlo anche della notte. Non sentire più lo sbuffo del ventilatore polmonare disturbava il mio sonno. La cosa che mi fa soffrire ancora è una.
Quale?
Tante persone con carica istituzionale non hanno compreso la scelta di Piergiorgio di interrompere la terapia ventilatoria, bollata come eutanasia. Tanti ce l’hanno con i Radicali, bollati come coloro che hanno strumentalizzato la sua causa. Vorrei chiarire che siamo stati Piero e io insieme a chiedere ai Radicali, in particolare a Marco Pannella e Marco Cappato di darci voce. E l’abbiamo fatto non solo per noi, ma per tutti quelli che volevano condurre una battaglia per un diritto. Quello di potere liberamente scegliere le terapie e rifiutarle, come prevede l’articolo 32 della Costituzione Italiana, al comma 2. Che recita: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”
Come ha affrontato questi sei anni? A chi si è appoggiata, chi l’ha aiutata?
I primi due anni vivevo ancora con la mamma di Piero, che si era ammalata soprattutto perché la salma del figlio le era stata portata via in un sacco bianco per l’autopsia. Era finita all’Istituto di Medicina Legale, ed è rimasta per sei mesi nel frigorifero del cimitero. E, invece, lei aspettava una sepoltura dignitosa. E’ morta due anni dopo, al secondo anniversario della sua morte, il 20 dicembre 2008. Quando è deceduta lei, con più tenacia mi sono impegnata a rispondere alle richieste di partecipazione ai convegni, che mi sono arrivate da associazioni e Comuni di tutta Italia. Lo faccio tutt’ora come militante radicale. Dal 2003 sono membro dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica e dall’ottobre 2011 sono co-presidente di questa associazione. Ho ottimi rapporti con mia cognata Carla, sorella di Piero, e mi sento amata e stimata dai compagni radicali tutti.