Un tempo il medico era il miglior amico di un paziente che si rivolgeva a lui con ossequio easpettando con rispetto i suoi esperti consigli.
Oggi il ruolo del ”dottore” è cambiato: più specialista e scienziato che missionario. Ed anche il rapporto paziente/medico ha subito un’evoluzione o direi meglio un’involuzione quanto a rapporti interpersonali. I medici hanno una maggiore responsabilità nei riguardi del malato (e questo è sacrosanto) ed i pazienti stessi sono sempre più informati e non sono più frequentemente completamente ”digiuni” in una materia che li tocca così da vicino, la loro salute. Purtoppo però questo porta a creare contrasti spesso ”irriguardevoli” verso la classe ospedaliera che lavora notte e giorno spesso quando gli altri sono a casa a dormire o in ferie.
Voglio riportare una nota trovata su facebook scritta da un primario di pediatria di un grosso ospedale italiano. E il suo sctittomi ha fatto riflettere e spero spinga anche voi a farlo.
”Un sabato al Policlinico.
Sto parlando con genitori di neonati gravi, quando mi avvisano che fuori dalla porta del reparto c’è una donna che urla. Esco. Una “signora” sbraita come un’ossessa, minaccia di spaccare tutto, perché il suo nipotino non è ancora in stanza dalla sua mamma. Ha creato uno speaker’s corner e illustra le nostre malefatte al pubblico, fatto di genitori che aspettano pazientemente di entrare in reparto, per i loro bambini malati, alcuni gravi. Sicuramente, in pizzeria, avrebbe aspettato il suo turno in silenzio, magari abbottandosi di “ciccio” (come dimostra il fisico tutt’altro che slanciato), ma qui in ospedale pretende tutto e subito, non gliene può fregare di meno se il personale è impegnato, magari con questioni di maggiore urgenza. Provo a parlarle, convinto che l’autorità che ricopro l’avrebbe indotta a più miti atteggiamenti. Grande successo! La “signora” vuole spaccare tutto, mi accusa di essere razzista perché lei è rumena e mi svela che sa benissimo che noi tratteniamo il neonato, perché facciamo sperimentazioni sui cervelli dei rumeni, concludendo che chiamerà il marito da Bitonto per mettermi a posto. Oviamente chiamo la polizia e raggiungiamo la leggiadra signora nella stanza della mamma. dove troviamo, in 8-9 mq: la puerpera, il marito (muto e panciuto che in italo-rumeno mi chiede “quante chila va bimbo”), una zia (?), quattro (dico quattro) bambini di età compresa tra i 3 e i 6 anni tutti intorno al neonato. Lei, la “signora” è ormai placata e soddisfatta. Tutti, oltre che consumare tutto il poco ossigeno disponibile in stanza, guardano preoccupati il neonato perchè ha un cerotto sul tallone, dove è stato punto per controllo della glicemia. “Ecco vede, voi fare cose a bimbo!” “cosa fatto?” “io denuncio” dice l’obesa agli attoniti poliziotti. Sono sconfitto. Ero andato per ragionare di educazione, di regole, per provare a spiegare come lavoriamo e cosa facciamo. Ma l’uno-due di “chila” e di “denuncia” mi ha steso. Esco dalla stanza, non ho più argomenti, mi allontano sentendo il poliziotto che prova a spiegare l’eziopatogenesi dell’ipoglicemia. Penso sarà tutto chiaro, quando, girando l’angolo del corridoio, vedrò il cartello di “scherzi a parte”.
Invece, incoccio, nella stanza di fronte, alcuni “indigeni”, pantaloncini corti e zoccoletti, tatuaggi vari e canottiere, che mi bloccano perché la figlia, dopo cesareo, è in una stanza con una negra! “Dottore, ma vi pare normale?”, mi dice una elegantissima teenager con maglietta sovra ombelicale e tatuaggio iuxta ascellare di ideogramma cinese. Mentre sto per appiccicarla al muro, arriva il nonno della puerpera: catenazza d’oro massiccio, zoccoli dottor Scholl’s e completo casacca e pantaloncini a quadroni sulle tonalità del verde: “e com’è, devono usare gli stessi bagni nostri?”. “Dottore voi ci capite, noi non siamo razzisti e non è che vogliamo cacciare a questa qua, ma almeno spostate a mia figlia”. Sono andato via, senza parlare. Avranno pensato (??) che sono maleducato. Ma stavo recitando a memoria Ezechiele 25:17, immaginando di trasformarmi in Samuel L. Jackson.”