di Antonio Turi
Si parla molto in questi giorni del libro di Sheryl Sandberg, top manager americana oggi ai vertici di Facebook. Se ne parla perché la Sandberg nelle pagine del libro e nella conferenza di presentazione ha ribadito che si tratta di un libro femminista.
Femminista? Ma come? Perché femminista? Cosa ha da spartire la top manager di una multinazionale con un movimento che nella percezione più comune e favorevole si batte per la parità fra donne e uomini e per ottenere la possibilità per le prime di concorrere ai ruoli dirigenziali della società? Perché diciamocelo, se una donna diventa Ceo di una multinazionale, significa che la parità è stata finalmente raggiunta.
Sì e no. Come sempre le cose nella realtà sono molto più complesse che nella teoria e la nostra società è variegata e attraversata da contraddizioni pesantissime, per cui si può passare da una oggettiva situazione di inferiorità seppure non più sancita dalla legge ma dalla consuetudine a una situazione nella quale tutto è pronto, a mancare sono solo le donne, perlomeno nella voglia o capacità, a voi la scelta, di prendere in mano il pallino delle cose e delle situazioni.
Quello che però è certo è che, almeno nelle società occidentali, le donne non trovano più ostacoli di tipo legislativo, cioè per diventare qualcosa non vanno più a sbattere contro leggi che glielo vietano. Anzi, la legislazione non è mai stata così favorevole alle donne, visto che spesso permette loro di spostare sul terreno della discriminazione di genere uno scontro tattico, cioè in un percorso individuale (una donna e il suo lavoro, una donna nel suo ambiente di lavoro) che appartiene più che altro a una lotta di lobby. Insomma, detto in altre parole non ti promuovo non perché sei donna ma perché sei mia avversaria nel posto dove lavoriamo diviene grazie alla legge una discriminazione di genere.
A bloccare la crescita delle donne, oggi, non è più una discriminazione di genere ma l’incapacità delle donne a pensarsi come lobbies, a sostenersi in quanto donne contro altri gruppi di potere che sono sì formati in larga maggioranza da uomini, ma non perché gli uomini in questione pensino di essere meglio delle donne, solo perché si sono formati in un passato prossimo nel quale le donne al potere non c’erano.
Insomma, sarebbe una bella cosa se la riflessione delle donne arrivasse a strutturarsi nella comprensione di maggiore complessità della realtà. E sapesse partire dalla constatazione e dalla accettazione del fatto che, come dimostrano le parabole di Sheryl Sandberg, ma anche di Arianna Huffington piuttosto che di Jill Abramson, direttrice del NYT, di Emma Marcegaglia, ex presidente Confindustria, Tina Brown, direttrice di testate storiche del mondo anglosassone, ormai la battaglia non è contro oggettive condizioni di discriminazione ma verso una incapacità tutta e solo femminile a diventare e agire come lobby.